Ormai imbarazza tutti il tempo lunghissimo trascorso senza che il Parlamento riesca a eleggere i giudici necessari per consentire il regolare funzionamento della Corte costituzionale. A nulla sono valsi i richiami ripetuti, neppure quelli del capo dello Stato.

Il partito di governo e i suoi sostenitori (avversari di ieri, anzi dell’altro ieri considerando il “patto del Nazareno”) si muovono esclusivamente in base a logiche politiche di corto respiro, guardando all’oggi, a ciò che può portare vantaggio o svantaggio ai loro disegni. È solo la contingenza politica che li muove, l’interesse immediato, legato al timore che una scelta “sbagliata” possa incidere negativamente sui loro disegni o alla speranza che la scelta “giusta” possa favorirli.

Ma la Corte non è un organo politico, le ragioni del diritto non sono quelle della politica. Due sole cose dovrebbero orientare nella scelta dei giudici: la competenza e l’indipendenza, non meno essenziale. È in gioco la tutela della Costituzione, sempre difficile, ma ancor più difficile in questo confuso momento. La Corte è l’organo di chiusura del sistema, indispensabile nella sua alta funzione di garanzia; non possiamo permettere ad alcuno di inquinarla, e non possiamo permettere che resti paralizzata.

Ma il pericolo esiste, ed è concreto: i giudici costituzionali sono quindici e per le delibere sono necessari almeno undici giudici. Ora sono rimasti in dodici; e se per qualsiasi ragione uno solo dovesse mancare? Arroganza e impuntature bloccano la soluzione. Ma è un grave rischio mantenere la Corte a numero ridotto, è un grave rischio per le istituzioni, ma lo è anche per noi.

Michele Ainis ha ricordato che la fine degli equilibri politici consolidati ha scompigliato le carte: l’accordo tacito, sempre rispettato, in base al quale i cinque giudici di nomina parlamentare dovevano essere divisi fra i partiti – due democristiani, uno comunista, uno socialista e un laico – non tiene più. Le stesse forze politiche parti dell’accordo, sono scomparse o hanno perduto la loro identità; non solo hanno cambiato nome, ma hanno cambiato sostanza e nei nuovi rapporti, ancora fluidi e insicuri, l’equilibrio non sembra chiaramente delineato. Alleanze si compongono e si scompongono, spesso sembrano solo apparenze che celano rapporti sotterranei sostanzialmente diversi.

Ai tempi dell’accordo, alla scadenza di uno dei giudici nessuno metteva in dubbio che andasse eletto un giurista della stessa area. Insisto sulla parola “area”, l’unica corretta. Ciascun gruppo, infatti, ora come allora, indicando un nome è legittimato a considerarne anche l’orientamento politico: è proprio questa la ragione che ha indotto i Costituenti ad attribuire a un organo politico – il Parlamento – il compito di eleggere un terzo dei componenti della Corte, che la sensibilità politica non fosse assente dall’organo che giudica le leggi. Non sarebbe invece legittimo imporre per la funzione di giudice un militante di partito o un politico di professione che rischierebbero di portare ragioni strettamente di parte nei giudizi di costituzionalità.

A proposito della vecchia prassi, non parlerei di lottizzazione; era un accordo indispensabile per garantire alla Corte una composizione plurale; proprio a questo serve l’elevata maggioranza richiesta per l’elezione, ad evitare che la sola maggioranza s’impadronisca dell’organo di garanzia perché la “garanzia” sarebbe finita. E ha dato spesso esiti buoni, Valerio Onida, ad esempio. Anche allora si discuteva, se non sull’area certamente sui nomi, e si allungavano i tempi: ricordo i lunghi mesi trascorsi per eleggere una personalità come Ettore Gallo!

Travolti i vecchi equilibri, non si è formato un accordo nuovo: tre sono, al momento, i gruppi più forti, e tre i giudici mancanti, ma la situazione non è consolidata e, soprattutto, le forze “governative” vogliono ostinatamente imporre giuristi fidati per scongiurare un rischio che vedono fortissimo: un nuovo giudizio negativo della Corte sulla legge elettorale da poco approvata. L’Italicum riproduce infatti i vizi della legge dichiarata illegittima, e sono già più di quindici i ricorsi presentati dai Tribunali.

Per sbloccare la situazione si sono avanzate proposte varie: si pensa a scrutini ininterrotti, a una sorta di conclave (di sicuro efficace), oppure allo scioglimento delle Camere, seriamente giustificato sul piano giuridico dal rischio di paralisi e certamente opportuno considerata la dubbia posizione delle Assemblee esistenti. Elette in base a una legge dichiarata incostituzionale con sentenza n. 1 del 2014, ma lasciate in vita in nome del principio di continuità dello Stato, utilizzato dalla Corte per non travolgere, oltre agli atti già compiuti, «gli atti che le Camere adotteranno prima di nuove consultazioni elettorali», il loro permanere, legato all’eccezionalità della situazione, non può però protrarsi oltre il tempo necessario a ripristinare la normalità. Certamente non si giustifica una sopravvivenza che duri fino alla normale scadenza della legislatura. E ancor meno si giustifica che Camere con quel vizio di origine continuino a legiferare intervenendo in modo pesantissimo sulla Costituzione, con riforme approvate solo grazie a una maggioranza artificiale ottenuta in virtù di meccanismi premiali dichiarati illegittime.

Lo scioglimento, tuttavia, poco aiuterebbe rispetto ai tempi dell’elezione dei giudici che finirebbero per allungarsi ulteriormente; potrebbe servire però come minaccia, al fine di indurre i parlamentari a trovare un accordo.

La soluzione veramente utile si avrebbe solo abbandonando l’arrogante imposizione di nomi “utili” nel contingente per iniziare finalmente una riflessione seria orientata al miglior funzionamento della Corte, e ragionare su giuristi di competenza sicura e in posizione indipendente (che di certo non mancano). Ma è realistico ipotizzarlo?