Alcuni anni fa uscivo dalla caffetteria di un'università americana e mi aveva anticipato un ragazzo che, appoggiatosi al muro di fianco alla porta, si era acceso una sigaretta. Sopraggiunse una ragazza che lo investì con veemenza astiosa perché non stava al di là di cinque yards dall'ingresso e col fumo avvelenava chi entrava e chi usciva. Non è un granché come esempio e non vuole esserlo, perché in ogni società e in ogni cultura ci sono comportamenti che provocano risentimenti e accuse. Comportamenti che segnano il limite, il limes, dell'ammissibile o che si vuol fare di tutto perché così sia: è proprio questo che stava avvenendo in quel campus e che sta avvenendo oggi in tutti gli Stati Uniti. Un atteggiamento che ha colpito pure gli amatissimi Simpsons, il cartoon stranoto anche in Italia nel quale non si vedrà più Homer Simpson strozzare il figlio Bart perché la cosa, hanno detto i suoi creatori, ha un impatto negativo sui bambini. Non è più tempo per queste cose, dice, pentito, lo stesso Homer nel pieno rispetto della vulgata woke.
Ho dato due esempi di quel radicalismo di cui la destra americana accusa la sinistra e la cancel culture, la cultura del politicamente corretto che ostracizzerebbe ogni espressione mediatica, artistica o politica che veicola idee ritenute offensive per l'identità di un qualche gruppo sociale o che mette in pericolo l'equilibrio psichico di determinate persone.
Naturalmente non abbiamo soltanto il wokeism di sinistra ad animare lo scontro politico-culturale negli Stati Uniti. Sul versante opposto potremmo intrattenerci a lungo parlando del wokeism di destra, quello, ad esempio, delle Liberty Moms, le “Mamme per la libertà”, un movimento sorto attorno al 2020 che, al grido “I do not want to co-parent with government” (non voglio il governo come co-genitore), va nelle scuole, soprattutto pubbliche, per ottenere il permesso dai presidi di togliere dalle biblioteche scolastiche tutti i libri che giudica inadatti a una corretta crescita morale, intellettuale ed emotiva dei propri figli. Che si tratti soprattutto dei libri di educazione sessuale e di quelli sul gender o di quelli di storia che trattano i temi del razzismo, delle discriminazioni di genere, dei buchi neri nella storia americana o – mai sia detto – della lotta di classe, c'era da aspettarselo. Che l'accusa sia di non volere il governo come co-genitore è più problematico, dal momento che le linee guida per le biblioteche vengono fissate da enti che, pur nella estrema varietà dei casi come sempre negli Stati Uniti, sono elettivi.
Le Liberty Moms, insomma, si battono contro sé stesse, contro i loro organi scolastici elettivi, non contro un governo ostile. Ciò non toglie che il movimento abbia rapidamente acquistato spessore nazionale e sia stato accolto con tripudio nel grembo del Partito repubblicano, o quanto meno dei suoi ambienti più radicali. È vero che le Liberty Moms hanno appena preso una batosta alle elezioni per gli School Districts in vari Stati; ma al tempo stesso alcuni Stati hanno passato leggi per vietare alle biblioteche scolastiche l'acquisto di libri “pericolosi” per gli studenti.
Gli antagonismi nascono nel profondo di una società che non è mai stata una, ma tante, e la cui democrazia ha una lussureggiante, spesso caotica, base plurale che le istituzioni e i partiti si suppone debbano ridurre a unità
Tutto questo per dire delle profonde spaccature e degli antagonismi inconciliabili che si stanno impadronendo degli Stati Uniti. Antagonismi che nascono nel profondo di una società che non è mai stata una, ma tante, e la cui democrazia ha una lussureggiante, spesso caotica, base plurale che le istituzioni – città, contee, Stati, governo federale – e i partiti si suppone debbano ridurre a unità. I partiti hanno normalmente filtrato le molte, continue istanze che ruggivano nel Paese raccogliendole attorno a élite sociali e politiche che, pur gestendole in base alle proprie istanze, per non dire i propri interessi, erano in grado di trovare un middle ground fra loro e di ottenere il consenso degli elettori. È stata questa la struttura della democrazia americana, un'élite i cui membri non si delegittimano gli uni con gli altri nonostante confliggano su fronti opposti e che è riconosciuta da una base pur fortemente differenziata.
Nel principale caso in cui questo sistema ha ceduto, il risultato è stata la catastrofica Guerra civile del 1861-65, in cui morì oltre il 2% della popolazione americana e una generazione di maschi del Sud venne spazzata via. Questa guerra incombe ancora sul Paese dopo un secolo e mezzo e ogni volta che i conflitti si inaspriscono fino al limite del disconoscimento dell'avversario il fantasma della Guerra civile ritorna. Ed è tornato anche ora che ad avanzare fortissima è la cosiddetta identity politics, la politica, cioè, fondata sulle richieste e le pretese di gruppi che si identificano con un dato marcatore di identità, che siano la razza, il gender, la fede religiosa o altro e si battono perché vengano loro riconosciuti i diritti necessari a esprimere e a vivere a pieno quella loro identità.
Chi sostiene la identity politics – che non è il vecchio pluralismo di cui hanno tanto parlato gli scienziati della politica – la ritiene la piena realizzazione della democrazia; chi invece vi si oppone, e probabilmente è la maggioranza, ritiene che la frammentazione della società in gruppi identitari porti a una pericolosa bagarre che, per imporre la vitale importanza del proprio gruppo, rischia di mettere in pericolo la democrazia e l'esistenza stessa del Paese. Il problema è che chi non si riconosce nella identity politics non riesce a capire come, di fronte alla esasperata e crescente diversificazione di una società in cui le identità si moltiplicano e si contraddicono, si possa individuare un terreno comune. Contendibile, ma comune. Un terreno che non è più la democrazia americana di cui ho detto, visto che le élite si chiudono con violenza nei propri privilegi innalzandoli non di rado a superiorità etica, che i partiti si stanno radicalizzando e si contrappongono ogni giorno di più e che il riconoscimento reciproco è sempre più precario. E non lo è neppure l'individualismo, dal momento che l'individuo è frantumato nei suoi contenuti e vieppiù antagonista di altri individui. Si potrebbe addirittura immaginare che i progressi dell'intelligenza artificiale ne possano rubare la sua essenza, il suo unicum. Un domani potremmo trovarci davanti non a un altro individuo, ma a un avatar costruito forse addirittura non da una persona, ma dall'IA.
Lasciamo perdere le sempre affascinanti distopie e chiediamoci se la rabbia possa travolgere gli Stati Uniti, perché è di rabbia che bisogna parlare come di un'onda montante oltreatlantico. Due esempi soltanto per ragioni di spazio. Il primo riguarda la rabbia che nasce a destra, ma anche a sinistra, dall'estrema fatica culturale degli americani ad accettare il fatto che gli Stati Uniti non sono più i detentori della supremazia politica e morale contenuta nell'espressione “eccezionalismo americano”, quella loro eccezione storica rispetto alla storia per eccellenza, quella europea, che ne faceva i detentori di valori universali che gli altri popoli erano chiamati a condividere rimanendo però sempre un passo indietro e bisognosi della guida americana. Un mondo plurale con una forte, ma non unica impronta americana pare non sia compatibile con la vitale sensazione di duecento anni vissuti all'insegna della supremazia etica e politica.
Gli Stati Uniti non sono più i detentori della supremazia politica e morale contenuta nell'espressione “eccezionalismo americano”
La rabbia nasce poi anche dal timore che il tradizionale culto per la Costituzione del 1787 stia diventando un peso antidemocratico a causa delle rughe sul volto di questa, dalla nomina politica e a vita dei giudici federali, al Senato in cui giganti come la California con i suoi quasi 40 milioni di abitanti hanno lo stesso numero di senatori, due, di entità minuscole come il Wyoming, dove gli abitanti sono 600 mila – una cosa che aveva un preciso senso uno o due secoli fa e non ne ha più alcuno –, a un sistema elettorale che può portare alla Casa Bianca il candidato che ha ricevuto meno voti popolari di quello battuto. E la rabbia qui è trattenuta e imbavagliata perché la Costituzione è la realizzazione istituzionale dell'eccezionalismo. In breve, una nazione abituata dai risultati a considerarsi suprema, si trova di colpo – è soltanto dal primo decennio di questo secolo che se ne parla seriamente – a doversi pensare non più unica e indispensabile.
È un cambio di prospettiva per tanti spaventoso a cui si aggiungono altri pericoli, dal fermarsi dell'ascensore sociale e dalla condizione di povertà in cui versa il 10% della popolazione (causata sì dai mutamenti dell'economia, ma altrettanto dalla chiusura delle élite nei loro privilegi) al populismo becero, però sincero, di chi si sente escluso dal materno seno della nazione in quanto ignorante e marginale. E costoro hanno trovato in Donald Trump, lo si dice ormai apertamente, non un leader politico, ma un cult leader, il leader quasi di un culto messianico che può dire e negare tutto perché la sua parola è vera.
Ci diciamo costantemente che gli Stati Uniti hanno risorse profonde che li portano sempre a risollevarsi dal pantano; ma anche questa è una fede. Dai margini dell'impero possiamo fare ben poco per aiutare gli Stati Uniti; ma possiamo fare qualcosa per aiutare noi stessi. Possiamo abbandonare le nostre tesi tralatizie su di loro, tesi risalenti alla Guerra fredda, siano esse di destra o di sinistra, che, come i jeans di quando eravamo giovani, oggi non si chiudono più sulla pancia.
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