L’autonomia regionale differenziata è un importante progetto politico di cambiamento dell’Italia, con un estesissimo e asimmetrico decentramento di competenze verso le regioni, a cominciare da scuola, sanità, infrastrutture, e con risvolti economici tutti da verificare, legati al desiderio di alcune regioni di ottenere molte più risorse.
Quel che è necessario ricordare è che non si tratta solo di una iniziativa leghista: esponenti apicali del Partito democratico hanno svolto un ruolo fondamentale per sostenerla. La proposta di cui oggi si discute è figlia tanto della Lega quanto del Pd, tanto di Luca Zaia quanto di Stefano Bonaccini. Un tema che dovrebbe essere cruciale per l’attuale dibattito precongressuale fra i democratici.
Naturalmente, ci si riferisce non alle astratte previsioni dell’articolo 116 terzo comma della Costituzione, ma alle concrete richieste di trasferimento di competenze che, a valere su quella norma, sono state avanzate a partire dal 2017 dalle amministrazioni di Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna (e poi di altre regioni).
Ricordiamo alcuni fatti. Nel 2017 la Giunta di centrodestra della regione Veneto ha avviato un’iniziativa politica per ottenere maggiori competenze e risorse, anche con l’indizione di un referendum consultivo – che si è tenuto lo stesso giorno anche in Lombardia. A valle della consultazione, il Consiglio regionale ha approvato una proposta di legge statale da trasmettere al Parlamento. I suoi contenuti sono estremi, sostanzialmente “secessionisti”. Essa, infatti, prevede la concessione al Veneto di maggiore autonomia in tutte, ma proprio tutte, le materie in cui ciò è teoricamente possibile, accompagnata dalla devoluzione alla regione dei 9/10 del gettito di tutte le imposte raccolte sul territorio.
Non sappiamo se i consiglieri veneti pensassero davvero che tale proposta avrebbe avuto concreto seguito, visto anche l’evidente profilo di incostituzionalità delle richieste finanziarie. Nel dibattito politico nazionale essa avrebbe potuto facilmente essere derubricata come una delle iniziative simboliche della tradizione leghista, come le ampolle del fiume Po, l’evocazione della mitica Padania o le iniziative referendarie del 2014 dello stesso Consiglio (Veneto indipendente, Veneto regione a statuto speciale), impedite dalla Corte costituzionale.
Chi ha trasformato quell’iniziativa in un tema prioritario nell’agenda politica italiana è stato Stefano Bonaccini, presidente della regione Emilia-Romagna e attuale candidato alla segreteria nazionale del Pd. In quel periodo, infatti, l’Emilia-Romagna, a partire da un’iniziativa della sua Giunta del 28 agosto, si è affiancata a Lombardia e Veneto nelle richieste di una massiccia dose di maggiore autonomia.
L’Emilia-Romagna, a partire da un’iniziativa della sua Giunta del 28 agosto, si è affiancata a Lombardia e Veneto nelle richieste di una massiccia dose di maggiore autonomia
La regione di centrosinistra ha marcato alcune differenze. In primo luogo, lì non si è tenuto alcun referendum consultivo. Poi, le richieste, pur estesissime, non includevano la regionalizzazione degli insegnanti e della scuola pubblica. Infine, il presidente emiliano ha sempre sostenuto, allora e anche recentemente, di “non chiedere un euro in più allo Stato”, anche se su questo, come si vedrà, sembra lecito nutrire qualche dubbio.
Tutto ciò detto, resta il fatto che si è trattato di un’iniziativa politica di grande rilievo. Per decenni l’Emilia è stata laboratorio teorico e attuativo del regionalismo italiano. La sua classe politica ha progettato e costruito un’organizzazione dei pubblici poteri ben bilanciata fra centro e periferie; con una capacità di programmazione e di realizzazione che ha fornito esempi da imitare ai governi regionali e locali di tutta Italia. Questa volta ha progettato un cambiamento per il suo territorio e non per l’intero Paese. L’Emilia non ha chiesto di rivedere l’articolo 117 della Costituzione per tutte le regioni, ma di attuare il 116 per se stessa.
Si dirà: un presidente di regione pensa al suo territorio. Gli altri possono fare lo stesso. Ma in quale disegno politico nazionale si inseriscono queste richieste? Quale Italia può scaturirne? Le richieste emiliane, come si legge nell’accordo preliminare del 2018 e poi nei “testi concordati” del 2019, sono motivate dalle “specificità proprie della regione richiedente e immediatamente funzionali alla sua crescita e sviluppo”. Una formulazione generica, senza alcun legame fra le caratteristiche della regione e della materia su cui si chiede maggiore autonomia. In questo modo, ciascuna regione può chiedere tutte le competenze che ritiene senza fornire motivazioni. Ne può scaturire un quadro nazionale caratterizzato da una estesa, confusa, frammentazione delle competenze nelle politiche pubbliche, che non si ritrova in nessun Paese. Un percorso assai discutibile, di sostanziale riforma delle competenze regionali (art. 117 Cost.) ottenuto senza le modalità di revisione previste dalla stessa Costituzione (art. 138). Un disegno di cambiamento dell’Italia molto importante, rispetto al quale ci si sarebbe aspettati una presa di posizione da parte del Partito democratico. Che però non è mai arrivata.
L’iniziativa del presidente Bonaccini ha messo le ali ai piedi alle richieste lombardo-venete e le ha portate all’attenzione del governo dell’epoca. Forse nel tentativo (se così fosse, miseramente naufragato) di recuperare qualche consenso al Nord, le richieste hanno avuto una corsia preferenziale che ha condotto prima a una dichiarazione di intenti con il governo Gentiloni e poi alla stipula, il 28 febbraio 2018, tre giorni prima delle elezioni, di un accordo preliminare. In quel documento, firmato dal sottosegretario Bressa (Pd) su delega del premier Gentiloni (Pd) e dal presidente Bonaccini (Pd), all’articolo 4, comma c, si prevede che i “fabbisogni standard” da determinare per quantificare le risorse da trasferire alle regioni, dovranno essere calcolati “in relazione alla popolazione regionale e al gettito dei tributi maturati nel territorio regionale in rapporto ai rispettivi valori nazionali”.
In altri termini, un accordo sottoscritto fra importanti esponenti del Partito democratico ha sancito che i servizi erogati dalle regioni vanno correlati anche al gettito fiscale, cioè al reddito medio dei loro cittadini: se vivi in una regione con un reddito medio più alto, hai diritto a più servizi. Un principio che cozza non solo con la nostra Costituzione, ma con una lunghissima tradizione delle forze progressiste (e per la verità, anche liberali) a favore dell’uguaglianza fra i cittadini. Ma anche su questo fondamentale aspetto non è mai arrivata una presa di posizione ufficiale del partito.
Un accordo sottoscritto fra importanti esponenti del Partito democratico ha sancito che i servizi vanno correlati anche al gettito fiscale, cioè al reddito medio dei loro cittadini
Con il governo Conte I, l’autonomia regionale differenziata è assurta a “questione prioritaria”, all’articolo 20 del ”contratto di governo” fra Lega e 5 Stelle. Il pallino è passato in mano a queste forze politiche. Il presidente Bonaccini ha continuato, insieme a Fontana e Zaia, a sostenere le proprie richieste. Le Intese fra Stato e regioni sono state oggetto di approfonditi confronti fra governo e regioni e poi inserite all’ordine del giorno di due Consigli dei ministri. Alla fine, non sono state varate, grazie a una progressiva rivalutazione del tema da parte del Movimento 5 Stelle (e non certo all’opposizione parlamentare).
Sul sito del Dipartimento per gli affari regionali della presidenza del Consiglio sono ancora disponibili i “testi concordati” dei primi 8 articoli della possibile Intesa con l’Emilia-Romagna. Essi sono identici a quelli di Lombardia e Veneto, a conferma di un sentire e di una iniziativa comune.
Da essi si apprendono dettagli fondamentali. In primo luogo, che “le risorse finanziarie, umane e strumentali […] necessarie all’esercizio delle funzioni”, cioè tutti gli aspetti più importanti della devoluzione di poteri, verranno definiti da una Commissione paritetica Stato-regione, e poi fatti oggetto di Dpcm su cui viene acquisito esclusivamente un “parere della Commissione parlamentare per le questioni regionali nonché delle Commissioni competenti per materia” (art. 3): un percorso, quindi, con un ruolo assai marginale del Parlamento.
Si apprende poi che nelle more della definizione dei “fabbisogni standard” vengono riconosciute alla regione risorse per ciascuna materia di ammontare “almeno pari al valore medio nazionale pro-capite della spesa statale” e che “l’eventuale variazione di gettito maturato nel territorio della regione dei tributi compartecipati […] è di competenza della regione” (art. 4). Si tratta di due disposizioni tecnicamente complesse ma politicamente chiare: esse determinano un trattamento finanziario di favore per le regioni richiedenti autonomia rispetto alle altre.
Si apprende anche che “lo Stato e la regione […] determinano congiuntamente modalità per assegnare una compartecipazione al gettito, o aliquote riservate relativamente all’Irpef o ad altri tributi erariali, in riferimento al fabbisogno per investimenti pubblici”: una disposizione con cui si prevedono fondi speciali per gli investimenti: circostanza prevista dal quinto comma dell’art. 119 della Costituzione, ma “per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali” e non certo per le regioni più ricche d’Italia.
Quanto alle materie su cui l’Emilia ha chiesto maggiori competenze, non esistono testi concordati ufficiali, perché il confronto Stato-regioni era ancora in corso quando poi il governo Conte I è caduto. Ma si dispone di bozze di lavoro da cui si possono evincere le richieste regionali oggetto di trattativa. Di esse il costituzionalista Francesco Pallante ha realizzato una attentissima analisi comparata fra le tre regioni. È illuminante riportarne integralmente un passaggio conclusivo:
“se la tesi di una maggiore moderatezza emiliano-romagnola è senz’altro argomentabile quanto all’estensione delle richieste avanzate (che non investono la previdenza complementare, il paesaggio, gli oli minerali, le infrastrutture sportive, i porti e gli aeroporti, la protezione civile, le acque demaniali, il credito, le società cooperative, la comunicazione, l’energia, le zone franche), la medesima tesi pare perdere di vigore guardando all’incisività con cui le richieste della regione si concentrano nei rimanenti ambiti settoriali (salute, istruzione, università, ricerca scientifica e tecnologica, lavoro, giustizia di pace, beni culturali, tutela dell’ambiente, rifiuti, bonifiche, caccia, difesa del suolo, governo del territorio, infrastrutture stradali e ferroviarie, rischio sismico, servizio idrico, commercio con l’estero, agricoltura e prodotti biologici, pesca e acquacoltura, politiche per la montagna, sistema camerale, coordinamento della finanza pubblica regionale, enti locali). In molti casi, come già osservato, la regione si trattiene dall’avanzare rivendicazioni mediaticamente eclatanti, ma si propone di ottenere risultati comunque rilevanti attraverso richieste formulate in modo accorto e puntuale. Come potrebbe essere quello relativo al personale sanitario e scolastico: lungi dal rivendicarne il passaggio sotto l’ordinamento giuridico regionale, l’Emilia-Romagna si limita a richiedere l’istituzione di appositi fondi che le consentano di operare nel senso dell’integrazione del personale disponibile: un modo comunque molto efficace per poter fare affidamento su un numero maggiore di personale sanitario e scolastico”.
Un’autonomia, quindi, su competenze estesissima, con possibili rilevanti risvolti anche per istruzione e sanità. Ma non solo: nelle bozze appaiono in più casi richieste emiliane di “fondi speciali”: come detto per scuola e sanità, ma anche per università, cultura, spettacolo: tutti fondi le cui regole e dotazioni sarebbero competenza di quelle Commissioni paritetiche, al di là del controllo parlamentare, di cui si diceva poc’anzi.
Insomma, un progetto di cambiamento del Paese molto importante, con profonde conseguenze per tutti i cittadini italiani, e con particolari preoccupazioni per quelli del Mezzogiorno. Rispetto al quale non sono mai mancate e non mancano posizioni molto diverse all’interno del Pd, a cominciare proprio dal sindaco di Bologna. Fortissimo disaccordo è stato espresso anche dagli ex presidenti emiliani Bersani e Errani.
Proprio per questo, ci si immaginava che quando il sindaco di Bari e presidente dell’Anci Antonio De Caro ha lanciato la campagna congressuale di Bonaccini il tema venisse affrontato, chiarendo le posizioni politiche del candidato e dei suoi sostenitori, a cominciare da quelli pugliesi. Non con qualche frase fatta, ma entrando negli aspetti più rilevanti della proposta politica. Ma così non è stato. È stato espresso un positivo, importante rifiuto della bozza Calderoli. Ma nulla è stato detto e discusso sugli aspetti più importanti: che regionalismo vogliono Bonaccini e il Pd?
Viene da chiedersi che cosa si intende per “dibattito precongressuale” se non si discute nel merito, seriamente, di un grande progetto di cambiamento del Paese proposto proprio da uno dei candidati alla segreteria del Partito democratico.
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