Noi ebrei siamo convinti di non praticare il culto dei morti. Tanto convinti che, per via delle mummie, soprannominammo l’antico Egitto, il potente Impero dei due Regni, «Terra dei morti».
«Polvere sei e polvere ritornerai», ripetiamo instancabili. Ma, in attesa del Messia, professiamo un nostro particolare culto degli antenati, simile peraltro a quello di altre civiltà. I nostri morti riposano nei cimiteri ebraici che, per la loro vetustà, finiscono per sembrare con l’andar del tempo elegantemente trascurati, e si chiamano in ebraico «Case dei vivi». Non per coincidenza e nemmeno per contrasto esclamiamo nei nostri allegri brindisi conviviali «Ai vivi!»: non ci piacciono la morte e l’oblio. Di recente ho letto, non ricordo più dove, un detto del Talmud: «Si muore veramente quando il proprio nome viene dimenticato».
Per appassionarsi ai nostri cimiteri basta vedere una volta quello del Ghetto di Praga, nel quale i nomi dei defunti restano ricordati da lapidi di pietra fitte fitte e tutte sbilenche quasi fossero mazzi di carte da gioco sparigliate. La religione ebraica non ammette l’incinerazione e l’esumazione.
Le narrazioni bibliche inciampano nei lunghi elenchi di nomi dei discendenti dei personaggi leggendari o famosi: vengono cantillati nelle sinagoghe i nomi dei discendenti di Caino, Noè, Davide, Salomone, Ruth e tanti, tanti altri… E mai per caso.Tirava una gran brutta aria per gli ebrei d’Europa con le leggi razziali dei fascisti italiani, quelle di Norimberga dei fascisti tedeschi imitate dai fascisti ungheresi, ritenute ammirevoli dai fascisti francesi e invidiate dai fascisti di tutto il continente
Tirava una gran brutta aria per gli ebrei d’Europa con le leggi razziali dei fascisti italiani, quelle di Norimberga dei fascisti tedeschi imitate dai fascisti ungheresi, ritenute ammirevoli dai fascisti francesi e invidiate dai fascisti di tutto il continente. Da adesso in poi userò il termine «fascista» che, a livello internazionale, ha raccolto tutte le forme differenziate di totalitarismo nazionalistico dilaganti negli anni Trenta del secolo scorso: «Morte al fascismo! Libertà ai popoli!», ululava nella notte Radio Mosca all’inizio di ogni trasmissione dei tempi della guerra.
Le leggi fasciste avevano trasformato gli ebrei in razza inferiore, eliminato i diritti civili e creato la modernità dei ghetti illegali fantasma, che rinserravano con mura, invisibili per il momento, noi ignari viventi. Solo chi ha provato quelle leggi sa che cos’erano e quale destino promettevano. Chi non lo sa o è nato dopo, per sua fortuna, o a quell’epoca se ne stava fuori dai muri invisibili, sereno e indifferente.
Cercherò di non dilungarmi su questo tetro cammino della Storia recente perché lo do per conosciuto anche da chi non lo conosce affatto. All’inizio della Seconda guerra, si diffuse tra noi ebrei prigionieri dell’invisibile il convincimento assai poco ottimistico che, con la sconfitta della Francia, saremmo stati deportati via mare nella colonia francese del Madagascar. In quell’isola remota il popolo ebraico si sarebbe estinto per fame, malattie tropicali, epidemie e inedia, testimoni solo i lemuri dagli occhioni esterrefatti. Che fosse un incubo lontano dalla realtà ispirato da una sorta di darwinismo degenerato lo abbiamo saputo dopo. Resta tuttavia da definire per quali vie il terrore si diffuse tra noi reietti. Uno dei soliti discorsi beffardi del Führer? Qualcuno spifferò incautamente il segreto a qualcun altro che poi lo propalò?
Poco importa, perché, con le vittorie iniziali dell’Asse Roma-Berlino-Tokio che fecero scoprire inaspettatamente a Est milioni di nuove vittime potenziali, non bastavano più i ghetti, non le espulsioni di massa, non il Madagascar, e maturò nell’ideologia del più radicale di quei totalitarismi, il nazismo, il progetto e poi la realizzazione della Soluzione finale del problema ebraico. Si profilava, anche agli imbecilli, la sconfitta dell’Asse, ma restava pensabile a Berlino lo sterminio occulto, Nacht und Nebel, e a questa sola vittoria il Partito della Morte si dedicò con impegno fino all’ultimo giorno, quello della resa senza condizioni.
La Soluzione finale, cioè l’annientamento di milioni di persone, contemplava più fasi rigorose e obbligate: la cattura e deportazione in treni piombati delle razze infettive, la separazione tra uomini, donne e bambini, la soppressione, all’arrivo nei campi, dei più deboli, la cancellazione del nome, sostituito da un numero tatuato sul braccio, l’annientamento di ogni residua qualità umana nel pur breve soggiorno – scientificamente programmato nella media di 3 mesi di sopravvivenza per lo squilibrio tra lavoro e alimentazione – nei lager. Dopo la soppressione, per inedia, assassinio manuale, o con i gas asfissianti, i cadaveri tatuati di persone che avevano già perduto, da vive, il diritto alla vita, perdevano, da morte, anche il diritto alla morte. Arse nel forni crematori, le loro ceneri erano sparse nei campi, senza preoccuparsi troppo che il nuovo grigio fertilizzante conservasse qualche dente o qualche frammento d’ossa.
Era ancora lontana nel futuro la scoperta del Dna che oggi permette agli scienziati di conoscere e descrivere le specie più rare estinte mille e mille anni fa, e alla polizia di individuare le vittime e catturare gli assassini.
Questa inaudita volontà di annientamento ha indotto noi superstiti a dedicarci a qualcosa di simile al detto del Talmud: ridare il nome ai nostri cari assassinati.
Nella mia lunga carriera da impiegato mi sono imbattuto nei più diversi sistemi di gestione dei lavori d’ufficio, fino ad arrivare al pc. Si parla tanto di Intelligenza artificiale, ma la memoria del computer già adesso ci batte dieci a zero, noi umani. Quello però che ancora oggi mi sorprende è il più antico: il sistema delle targhette Adrema, inventato a Berlino negli anni Venti del secolo scorso. Consiste in targhette di pochi centimetri di metallo, duttile ma resistente all’uso, e in macchine targhettatrici che imprimono sul metallo nome, cognome e indirizzo di chi si vuole su ogni targhetta. Le targhette punzonate sono conservate in appositi contenitori di metallo, ai quali alla bisogna vengono innestati, quasi fossero caricatori di kalashnikov, sulla macchina stampante che mitraglia i dati sulla carta.
Le "pietre d’inciampo", Stolpersteine, sono state ideate, negli anni Novanta del XX secolo, dall’artista tedesco antifascista Gunter Demnig per diffondere nelle città europee la memoria degli assassinati nei campi di sterminio
Le «pietre d’inciampo», Stolpersteine, sono state ideate, negli anni Novanta del XX secolo, dall’artista tedesco antifascista Gunter Demnig per diffondere nelle città europee la memoria degli assassinati nei campi di sterminio. Sono targhette d’ottone simili a quelle Adrema, sulle quali vengono incisi il nome e gli altri dati disponibili. Alla fine vengono inserite per strada sul marciapiede dell’abitazione che fu del deportato. Se uno non vuol guardarle, non le guarda. Ci si cammina sopra senza inciampare davvero perché l’inciampo del quale sono causa è solo spirituale, se voluto ornano, nel sogno di Gunter Demnig, le strade cittadine di umili, ma lucenti stelle.
Passati chissà quanti anni, può dunque accadere che qualcuno inciampi nel nome di una giovinetta sconosciuta assassinata ad Auschwitz all’età di diciassette anni, e allora quel qualcuno del futuro si chiederà, e forse capirà, il come e il perché.
Costano poco come le targhette Adrema, e forse a quelle si è ispirato il loro creatore. Certo, sono in agguato i vandalizzatori delle Case dei Vivi: possono essere sfregiate, ma sostituite con una spesa poco rilevante. Se si facesse un calcolo, come si usa fare oggi per ogni cosa, anche la meno prosaica, dei costi-benefici, memoria e inciampi spirituali risulterebbero vantaggiosi rispetto ai costi sostenuti. La spesa più ingente è quella del buco da praticare nel marciapiede per l’installazione, mentre i dati punzonati sulla traghetta rimangono conservati dalla memoria infallibile del computer, il signore dei nostri giorni. I vandali, riscavando Nacht und Nebel, il buco sul marciapiede con il loro lavoro bestiale, inconsapevoli, lo rendono disponibile a titolo gratuito per la nuova pietra d’inciampo, la targhetta d’ottone dedicata alla stessa persona. Lo scandalo che generano nelle città perbene è inoltre da considerare un rilevante supporto alla forza della memoria.
Nessuno porterà mai la posta indirizzata a una pietra d’inciampo, nessuno penserà di premere il pulsante che non esiste del citofono al quale nessuno risponde: una forma esilissima di permanenza fievole ma tenace che non ricorda imprese eroiche ma solo il nome di una persona uccisa senza un perché, come milioni di altre. Eppure c’è qualcuno che si dedica alla estirpazione delle Stolpersteine, per completare l’infamia del genocidio interrotto l’8 maggio 1945, e non sa che, a differenza dei poveri morti, le umili targhette d’ottone ritornano, ritornano, ritornano…
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