Vi sono momenti in cui il dibattito pubblico sulle parole nasconde un problema di contenuti che si fa fatica a fare emergere e ad affrontare con serietà. In questi giorni abbiamo almeno tre esempi diversi, che dovrebbero costringerci a riflettere e non solo farci “prendere posizione”. Due di questi riguardano casa nostra: la parola “razza”, secondo alcuni da abolire anche nella nostra Costituzione; e l’attribuzione del termine “terrorismo” alla violenta azione di Macerata di un neofascista-leghista contro inermi cittadini di colore. Nel primo caso penso abbia ragione il presidente della Corte Costituzionale Paolo Grossi, che si è espresso contro una semplicistica cancellazione del termine “razza” – proposta da alcuni in nome della sua ormai accettata infondatezza scientifica – perché i razzismi esistono ancora. Se cancelliamo il termine razza dovremmo cancellare anche quello di razzisti? Non potremo dunque più dare senso a una protesta contro il razzismo?
Per quanto riguarda identificare come terrorista Luca Traini, si è pensato che usare quella parola volesse dire accentuare maggiormente la condanna dell’atto. Dimenticando che terrorismo è un atto sempre legato non solo a un’ideologia, ma a un’organizzazione, a una pianificazione, di cui l’autore è un tassello non unico. È un po’ come quando si usa il termine genocidio per denominare un massacro o una strage particolarmente odiosi, dimenticando che esso determina un tipo particolare di strage e massacro, quello “intenzionale” per distruggere un gruppo “in quanto tale”.
La difficoltà a fare i conti con le parole è ancora più evidente nel caso della Polonia, che ha deciso di proibire l’uso del termine “campi di sterminio polacchi” in riferimento ai campi nazisti in Polonia nel corso della Seconda guerra mondiale e di punire chi “accusi pubblicamente e contro i fatti la nazione o lo Stato polacco di essere responsabile o complice dei crimini nazisti compiuti dal III Reich tedesco”. Ora è vero che parlare di campi “polacchi” può far pensare a una responsabilità diretta della Polonia, ma è abbastanza evidente che il riferimento è sempre stato di carattere territoriale e geografico e non politico o giuridico o morale. Quando poi si vuole impedire di “accusare” di collaborazione la “nazione”, un termine vago che comprende ovviamente tutti i cittadini polacchi, ciò che si vuole attuare è la censura nei confronti di quegli storici che hanno messo in evidenza il collaborazionismo polacco (chiaro e reale come quello francese, olandese, ungherese ecc.) e, soprattutto, il permanere di un antisemitismo che ha prodotto violenze e pogrom, durante e dopo la guerra, senza alcuna partecipazione diretta dei nazisti.
Il governo polacco vuole mettere in guardia dal fare storia seriamente in nome di una verità di Stato che rassicuri e difenda l’orientamento nazionalista-identitario che ha oggi la maggioranza nel Parlamento di Varsavia. Prima di promulgare questa legge, infatti, erano stati rimossi il direttore e lo staff del costruendo museo sulla Seconda guerra mondiale che offriva una dimensione europea e internazionale degli avvenimenti, per limitarsi, adesso, alle sole “sofferenze” della Polonia.
Dietro le parole c’è sempre la storia e usarne alcune o proibirne altre può, nell’immediato, suscitare consensi e appoggi, senza che ci si interroghi adeguatamente sugli effetti di quelle scelte. Una seria e meditata campagna di tipo scientifico per far capire fin dai primi anni di scuola che le “razze” non esistono deve essere accompagnata da una altrettanto seria educazione volta a comprendere come la costruzione delle razze è stata un prodotto della storia recente, in modo particolare dalla seconda metà dell’Ottocento e in connessione con l’ultima e più terribile fase del colonialismo. Il tribunale internazionale per il Ruanda, in una famosa sentenza, ha stabilito che per razza non si deve intendere tanto una realtà che esiste concretamente, quanto piuttosto l’idea costruita da chi intende distruggere un gruppo umano considerato nemico, attribuendogli connotati “naturalmente” diversi anche se inesistenti. Terrorismo non è solo un atto violento e odioso, di cui si possono accusare tutti i violenti e gli odiatori, ma è un fenomeno politico-ideologico-militare che si è costruito e modificato nel tempo e che occorre comprendere e spiegare. Colpe e corresponsabilità in crimini del passato sono state una costante – purtroppo – nella storia di tutti i Paesi europei, e non solo: riconoscerle è l’unico modo per costruire un primo passo verso una storia condivisa capace di tenere insieme, in nome della verità, anche memorie diverse e divise che è giusto rimangano tali nella mente dei singoli individui.
La logica dei social spinge verso il riduzionismo, verso la semplificazione massima attorno a un uso valutativo (giusto/sbagliato, buono/cattivo) delle parole. Occorre lasciare ad esse, invece, la complessità storica che rappresentano e significano: una complessità che si può riuscire a spiegare in modo chiaro e comprendere in modo semplice, senza ridurle, però, alla logica dei like.
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