Nel gennaio del 2015, a sei mesi dalle ultime elezioni presidenziali, un sondaggio di Acso-Lra (Afghan center for socio economic and opinion research con Langer research associates) rivelava un atteggiamento positivo sulle aspettative prodotte dalla nuova tornata elettorale, pur se per il 53% degli intervistati le elezioni erano state fraudolente e solo il 44% le aveva valutate trasparenti. Inoltre la bizzarra alchimia istituzionale, che ha posto accanto al presidente un capo dell’esecutivo che ha quasi gli stessi poteri, era ritenuta accettabile dall’87% del campione. Una percentuale molto elevata.
Soltanto 11 mesi dopo, nel novembre del 2015, i risultati di Asia Foundation (Af) – che conduce sondaggi da diversi anni in Afghanistan studiando soprattutto il consenso – rivelava quasi esattamente il contrario: il 57% del campione di Af sosteneva che il Paese andava nella direzione sbagliata e il 75,3% di consenso guadagnato dalle promesse della campagna elettorale del 2014 (come abbiamo visto salite all’87% dopo la tornata elettorale) erano calate al 57,8%. Più della metà degli intervistati, il 56,3%, oltre a esprimere paura per la crescente insicurezza nazionale (le vittime civili sono in costante aumento), era fortemente insoddisfatto dei servizi erogati in quasi tutti i settori pubblici: elettricità, strade, acqua potabile, sanità, agricoltura e persino dello stato dell’istruzione, realtà che, dall’inizio della guerra nel 2001, ha visto un rilevante salto in avanti. Unica vera luce nel tunnel della guerra afghana.
Più della metà degli intervistati oltre a esprimere paura per la crescente insicurezza nazionale (le vittime civili sono in costante aumento), era fortemente insoddisfatto dei servizi erogati in quasi tutti i settori pubblici
Nondimeno la percentuale di chi crede nelle elezioni come forma per eleggere i propri leader sembra restare elevata (l’80% del campione Acso-Lra) anche se la rilevazione di Af rivelava che sempre più afgani vogliono lasciare il Paese (oggi il 39,9% rispetto al 22,8% del 2011). Una spia rilevante del fatto che le aspettative restano deluse: il Paese è in panne e oltre al persistere della guerra si allargano le ombre che ipotecano il futuro. Si fugge dal conflitto – come ben raccontano i dati sull’emigrazione clandestina o le richieste d’asilo – ma anche da un’economia che va sempre peggio.
L’Afghanistan, in cui ogni anno si affacciano 400.000 nuovi soggetti in un mercato del lavoro largamente informale, è in recessione. La sua economia, sostenuta per oltre 2/3 da finanziamenti esteri, ha subito un contraccolpo non indifferente dopo l’uscita di scena di oltre 100.000 soldati della Nato e relativi contractor: la ricchezza nazionale (Pnl), che nel 2011 cresceva al 6,1%, nel 2014 era calata all’1,3% e allo 0,8% l’anno seguente, con una stima della World Bank addirittura dello 0,5% per il 2016. Benché la Banca mondiale preveda un futuro più roseo nei prossimi anni (la Conferenza di Bruxelles di inizio ottobre ha promesso circa 4 miliardi di dollari l’anno sino al 2020) le prospettive continuano quantomeno a essere molto fragili.
La caduta della moneta afghana (afghanis), che per anni è stata la più forte della regione (rispetto ad esempio alle divise di Pakistan, Iran o delle ex repubbliche sovietiche) può probabilmente favorire le esportazioni ma è un segnale che difficilmente richiamerà investitori.
La capacità produttiva industriale è debole, l’agricoltura è in affanno e la bolla speculativa che negli anni scorsi ha letteralmente avvolto la corsa edilizia della capitale (anche in previsione della costruzione di un nuovo centro direzionale) si è arrestata, sia per la contrazione della domanda interna sia perché instabilità e insicurezza continuano a essere due fattori di rischio ineludibili.
Le divisioni interne al governo infine paralizzano le riforme, la lotta alla corruzione e una programmazione condivisa; l’unico risultato che Kabul può vantare è solo una più virtuosa politica fiscale e più ordine nei conti pubblici. Poco.
Il recente accordo con Bruxelles, che prevede il rimpatrio di almeno 80.000 afghani nei prossimi mesi, e la minaccia del Pakistan di espellere entro marzo 2017 un milione di afghani indocumentati, non compensa i pochi benefici acquisti
In questa situazione non è difficile capire come il desiderio di lasciare il Paese sia tra le opzioni considerate sia da chi ha i mezzi per farlo sia da chi spera nell’asilo politico. Ma il recente accordo con Bruxelles, che prevede il rimpatrio di almeno 80.000 afghani nei prossimi mesi (anche con rientri non volontari) e la minaccia del Pakistan di espellere entro marzo 2017 un milione di afghani indocumentati residenti nella «terra dei puri» (250.000 sono già stati espulsi) – che si andranno ad aggiungere al milione di sfollati interni – non compensa i pochi benefici acquisti: una seppur fragile democrazia, il diritto all’istruzione (da un milione di studenti nel 2002 agli attuali 8,7 milioni, di cui il 36% ragazze), una maggior coscienza del ruolo della donna e la nascita di diverse organizzazioni della società civile che godono di largo consenso (almeno fino a quando la comunità internazionale continuerà a sostenere queste giovani forme associative) e che in gran parte suppliscono allo scarso Welfare nazionale.
Un’ultima menzione merita la circolazione di notizie e la nascita di network televisivi e radiofonici anche se in gran parte dipendono da finanziamenti esteri (occidentali, pachistani, iraniani) che spesso dunque rispondono a logiche ed agende non esattamente indipendenti.
[Questo articolo è stato pubblicato sul sito dell’Ispi – Istituto per gli studi di politica internazionale]
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