Accade ogni tanto che un uomo o una donna noti si uccidano, e che molti se ne scandalizzino, nel senso etimologico del verbo. Uno skàndalon, un inciampo dell’opinione pubblica, è stata la morte che Lucio Magri si è dato in una clinica svizzera, assistito da un medico. Un tale inciampo fu un anno fa anche il gesto di Mario Monicelli, che salì all’ultimo piano di un ospedale, si arrampicò a fatica – lui novantacinquenne – sul bordo di una finestra, e si gettò di sotto. Non fossero stati famosi, per loro non ci sarebbe stato rumore mediatico. Certo qualcuno o molti avrebbero sofferto, o avrebbero provato rancore, e forse anche – perché no? – simpatia. Così reagiamo di fronte al suicidio: coinvolgendo noi stessi in quel gesto ultimo, sia che lo si rifiuti con rabbia, sia che lo si accolga con pietà. Invece, non (solo) di coinvolgimento si è trattato, ma (anche) di scandalo per Monicelli e per Magri. E per questo ancor più che per quello. Chissà, forse c’è chi non perdona loro, uomini pubblici, di rendere dolorosamente evidente la più radicale e privata delle questioni: di chi è la mia morte?
A leggere i commenti seguiti al suicidio del fondatore del «manifesto» sembra che proprio la sua privatezza non sia stata rispettata. Contro ogni pur formale pietà, qualcuno si è cimentato in un funereo narcisismo: io avrei fatto, io non avrei fatto… Naturalmente, l’avrei implicava un giudizio, positivo o negativo che fosse. È la presunzione di avere il diritto di giudicare a mettere l’io al posto dell’altro, e a negare la singolarità irriducibile della sua morte, di ogni morte: un conto è soffrirne, o magari gioirne, un altro è “prenderle le misure” dall’esterno, per così dire. Che per se stessi si consideri il suicidio accettabile o inaccettabile, in ogni caso il darsi la morte di un altro è solo dell’altro. E solo l’altro può misurarne il senso o il non senso.
Ma c’è stato di più, e di peggio. Qualcuno infatti si è scandalizzato per la modalità del suicidio: non violento né insanguinato, non doloroso né rumoroso, ma asettico e silenzioso nella pratica quieta di una clinica svizzera. Magri – questo è stato scritto, con tono scandalizzato – ha voluto morire con minimo sforzo, senza esporre carne e sangue, ma con una messa in scena troppo comoda e troppo pulita, di fronte a un paesaggio da cartolina e con servizi di segreteria. Proprio così è stato scritto e suggerito, senza alcuna pietas. Ed è stato aggiunto che la “terribile epifania” del sangue avrebbe invece riscattato quel suo gesto, e che la sua sacra impurità avrebbe riaffermato la santità del vivente.
Come si può rispondere a tanta moralissima, impietosa presunzione? Che cosa c’è di sacro e di puro nella disperazione di un vecchio costretto ad arrampicarsi su per una finestra, nel gelo di una solitudine terribile? Chi ami le vite singole dei singoli esseri umani di quella disperazione si dispera egli stesso. Il contrario accade a chi consideri un valore non la vita e ancor meno le vite, ma la morte, e il sangue un passepartout per il regno dei cieli, o per qualunque altro assoluto.
Lasciamo a Magri tutta la sua morte, e a quelli che lo amavano e lo amano tutto il loro dolore. Per noi teniamoci una preoccupazione: che la presunzione morale (e politica) di chi s’impanca a giudice scandalizzato delle morti degli altri non finisca per rendere più difficile e più doloroso il nostro stesso morire, e dunque il nostro stesso vivere.
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