Non lo sapevamo, ma le macerie della stazione di Bologna erano ancora in città, insepolte. Nel quadro del processo all’ex componente dei Nar Gilberto Cavallini, è emerso come questi materiali siano rimasti per quasi quarant’anni accumulati nel cortile di una caserma, quella dei Prati di Caprara, posta lungo il fascio ferroviario nella zona ovest della città. Una caserma poi passata in carico al Demanio e in concessione al Corpo militare della Croce rossa e in via di dismissione, come tutta l’area verde circostante, ora oggetto di una assai discussa riqualificazione urbana. Alcuni reperti furono esaminati dai periti nelle indagini che seguirono lo scoppio della bomba; ma il grosso restò fermo, inerte, esposto alle intemperie, in forma di cumulo di macerie edilizie, frammiste a brandelli di borse, valigie, effetti personali. Pochi giorni fa, sono iniziate nuove perizie su questi resti.La sera del 2 agosto 1991 dieci piazze e piazzette del centro di Bologna si presentarono ingombre di macerie. Dieci cumuli di detriti illuminati da lampadine nudeLa sera del 2 agosto 1991 dieci piazze e piazzette del centro di Bologna si presentarono ingombre di macerie. Dieci cumuli di detriti illuminati da lampadine nude. Improvvisamente, ragazze e ragazzi vestiti di bianco, ventenni o poco più, apparirono da dietro a quelle macerie dando inizio a un rituale scenico, un progetto teatrale diffuso sul corpo cittadino. Antigone delle città era stato ideato da Valerio Festi e Monica Maimone, che ne avevano affidato la regia e la drammaturgia a Marco Baliani, Maria Maglietta, Bruno Tognolini. Cento giovani attori, provenienti da scuole di teatro di tutt’Italia e anche dall’estero – come i viaggiatori che il 2 agosto 1980 attraversavano la stazione – si trasferirono per due settimane a Bologna, ospitati, supportati, nutriti dalla comunità cittadina. In modo corale venne costruita la drammaturgia, a partire da testi poetici donati da Franco Fortini, Franco Loi, Gianni D’Elia, cui si aggiunsero ricordi, fotografie e oggetti cari agli attori – quelli che si portano con sé in un viaggio importante – poi brani tratti da Camus, Yourcenar, Handke, e stralci dagli atti del processo.
L’idea era nata nel luglio dell’anno precedente, come reazione alla sentenza d’appello del processo sulla strage di Bologna, che aveva assolto gli imputati condannati in primo grado. Renzo Imbeni, sindaco della città e presidente del Comitato di solidarietà alle vittime delle stragi aveva così accolto l’appello di Festi e Maimone: «Si invitano attori e scenografi a Bologna per percorrere insieme le sue strade e le sue piazze declamando il lamento e la protesta di Antigone, che volle seppellire il fratello morto contro la volontà del re».
Le macerie portate nella città erano non solo scenografia, ma metonimia della stazione e delle sue vittime, una parte significante di ciò che si rievocava, corpo insepolto che chiedeva attenzione e cura: perché se non si seppelliscono i morti, la città resta malata.Le macerie portate nella città erano non solo scenografia, ma metonimia della stazione e delle sue vittime, una parte significante di ciò che si rievocava, corpo insepolto che chiedeva attenzione e curaConcluso l’atto nelle dieci piazzette, i giovani attori confluirono in piazza Maggiore per l’atto corale: ad aspettarli e ad accompagnarli c’erano migliaia di persone: venticinquemila, trentamila. Il gesto finale prevedeva che ognuno dei cento attori raccogliesse una pietra, avviandosi a piedi verso la stazione cantando una ninna nanna popolare. Ed è a questo punto che si sconfinò dallo spettacolo nel rito. Gli attori offrivano una pietra a chi del pubblico volesse prenderla per unirsi a quella processione verso la stazione. Molti, moltissimi, la presero e si unirono.
Man mano che il corteo arrivava, nel piazzale della stazione cresceva un tumulo di pietre, mentre la mezzosoprano Esti Kenan Ofri intonava il canto finale dell’opera Ofanim di Luciano Berio, «rievocando la memoria di tutte le madri del nostro tempo e di tutti gli Esodi e le stragi che hanno lasciato profonde ferite nella nostra coscienza», nelle parole del compositore.
L’orologio sull’ala ovest, sulla sala d’aspetto, era coperto da un drappo nero, al di sotto del quale le lancette si muovevano. Lo scorrere del tempo andava nascosto alla vista: un rituale deve essere sospeso, astratto dal quotidiano. E l’orologio era un segno della vita della stazione, ripresa dopo la bomba: non era stato ancora fermato per una scelta memoriale (che avverrà nel 1995, dopo un guasto), non era ancora divenuto monumento. Allora era in movimento come lo era la città, pronta ad aderire a un rituale in modo spontaneo. Le persone avevano la necessità di far risuonare l’emozione dentro di sé e avevano scelto di continuare a stare insieme, senza distinzione tra pubblico e attori, per compiere un gesto di assunzione pubblica del lutto.
Il pubblico di Bologna, infatti, sapeva benissimo che cosa andava a vedere in piazza quella sera: non era lì per conoscere la storia, ma proprio perché la sapeva già. Baliani commentò: «Potessero gli spettatori venire a teatro non per vedere come finisce il terzo atto – chi se ne frega di come finisce il terzo atto – ma per vedere come riesco a rinnovare dentro di te la riconoscibilità di quel fatto che è accaduto, e che tu conosci benissimo – tanto bene che non lo riconosci più. Venire a teatro per vedere e riconoscere la storia, e soprattutto per riconoscersi in lei».
Questo progetto del 1991 è stato raccontato – e dissepolto – il 16 luglio all’interno della rassegna Antigonellacittà, pensata dalla compagnia teatrale Archivio Zeta insieme alla Biblioteca delle donne di Bologna. Un percorso di ricerca e di lavoro creativo attorno a cosa significhi oggi essere Antigone, a quali forme di «antigonismo» abbiano attraversato il tempo per arrivare fino al nostro presente.
Antigone agisce contro il potere, contro la legge (umana) e in nome della legge (divina). Antigone dà sepoltura al fratello per dare corpo al lutto, per renderlo presente, per renderlo politico: questo è accaduto nella nostra storia recente alle Fosse Ardeatine, a Monte Sole, a Milano, Brescia, Bologna, per l’Italicus e per Ustica (e l’elenco è ancora più lungo). Sorelle, ma anche mogli, mariti, figli, madri e padri, hanno scelto di seppellire con un rituale – esposto, esibito, pubblico e quindi politico – i loro cari: recuperare i corpi e seppellirli è stato il primo, necessario, passo per rivendicare la verità.
E questo accade oggi, contro la legge (scritta da governanti pro tempore) e in nome della legge (del mare, dei diritti umani) per i morti nel Mediterraneo.
Possiamo dimenticare le macerie in un angolo della città, ma finché saranno insepolte continueranno a porre domande. A noi sta indagarle e trovare risposte, ma anche prenderle in mano per ricostruire senza rimuovere.
Le macerie in piazza sono un segno del nostro passato di stragi, di terrorismo, di negazione del diritto alla vita e alla giustizia. E sono anche lo specchio che riflette un presente in cui la legalità è ogni giorno più debole e l’illegalità ogni giorno più forte.
Non serve cercare di rompere lo specchio con l’alluvione parolaia. Non serve ripulire la piazza dalle macerie. Il problema è usare le macerie per costruire e ricostruire. Ognuno prenda la sua pietra.
Renzo Imbeni,presidente del Comitato di solidarietà alle vittime delle stragi, 1992
Conoscerà ciascuno una cosa vera.
E voi tornerete alle case con una pietra
sul cuore come nel pugno una pietra vera.
Domani sopra i tetti il sole griderà
le grandi opere ignude delle montagne
E noi e voi torneremo al lavoro.
Franco Fortini, Per Bologna, 2 agosto 1991
[La fotografia di Monica Rubbini è tratta da Antigone delle città, o dell'insepoltura del corpo del fratello. Un progetto teatrale su cumuli di macerie per la memoria delle vittime della strage della stazione di Bologna, a cura di Bruno Tognolini, Bologna, Tip. Moderna, 1992]
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