Gli anniversari sono tempo di bilanci. Il 25 marzo si celebrano i 60 anni dalla firma del Trattato di Roma dal quale è nata quella che oggi chiamiamo Unione europea. Il bilancio però è difficile. Per alcuni il bicchiere è mezzo pieno, per altri è mezzo vuoto, ma non è facile capire chi dei due abbia più ragione. La pace tra gli Stati membri non è venuta meno e, per ora, sembra garantita. L’Unione è sopravvissuta – con qualche acciacco – alla crisi del secolo, la più grave dopo quella che è sfociata nella Seconda guerra mondiale. La povertà non è stata vinta e le disuguaglianze sono aumentate, ma nel complesso l’Europa resta in questo mondo una delle regioni nelle quali si sta meglio. Con qualche severa restrizione in alcuni Paesi, le libertà e i diritti umani fondamentali sono sostanzialmente rispettati. In un’ottica di lungo periodo e guardando a gran parte del resto del mondo, bisogna riconoscere che non ci è andata poi così male. Molti di noi, se dovessero scegliere dove vivere, alla fine sceglierebbero proprio l’Europa, come del resto tanti profughi, rifugiati, migranti che bussano alla porta, anzi, perlopiù entrano senza bussare. Per loro l’Europa è una terra promessa: molti finiranno delusi, ma molti altri vi troveranno una nuova patria dove far crescere i loro figli.
E però, le crepe dell’edificio dell’Ue sono visibili a tutti e non riguardano solo la sfida dell’uscita del Regno Unito (voluta, giova ripeterlo, dal 37% degli aventi diritto al voto e dal 52% dei votanti).
Nelle aree limitrofe del Medioriente e dell’Africa regnano la guerra e il caos, e l’Unione non ha né le risorse né le competenze per far sentire la sua voce e per tentare di ricomporre i conflitti. I mercati finanziari sono sempre in agguato, sensibili all’altalena delle dinamiche imprevedibili della fiducia e della sfiducia sull’affidabilità dei singoli Paesi e dei loro debiti sovrani. Mario Draghi ha sparato tutte le munizioni che aveva a disposizione (e forse anche qualcuna di più) per fronteggiare la crisi monetaria, nel suo arsenale sono rimaste solo poche armi di emergenza. I movimenti anti-europei di destra, ma anche di sinistra, si apprestano a raccogliere, nell’anno elettorale incominciato nei Paesi Bassi, il consenso di tutti quegli scontenti che attribuiscono all’Europa e alla sua moneta la causa dei loro guai. Sulla scena mondiale sia Putin a Est sia Trump a Ovest sembrano entrambi ben intenzionati, sia pure con motivazioni diverse, a mettere i bastoni tra le ruote del processo di unificazione europea. Luci e ombre, a ognuno decidere se prevalgano le prime oppure le seconde.
La diga olandese ha tenuto; se in Francia le ambizioni di Marine Le Pen saranno ridimensionate e, soprattutto, se in autunno in Germania si affermasse una coalizione disposta a prendere l’iniziativa di qualche significativo passo avanti, gli scenari di una ever closer union potrebbero riaprirsi.
La Commissione Juncker ne ha disegnati cinque che si possono riassumere così, nel linguaggio delle parate militari: fermi tutti, un passo indietro, un passo laterale a sinistra, un passo laterale a destra, un passo avanti. Solo che la Commissione non ha il potere di dare ordini e di pretendere che vengano eseguiti, si limita a indicare le mosse possibili, sta ai governi decidere, insieme e quasi sempre all’unanimità, in che direzione andare. Al momento attuale, gli esiti sono tutti ancora aperti, da quelli perversi a quelli virtuosi.
Tra gli esiti possibili c’è la geometria variabile, i cerchi concentrici, l’Europa a due o più velocità. Diciamolo chiaro: se si vuole fare un passo avanti non si può farlo in ventisette. Le linee di faglia sono troppo consistenti. C’è quella Nord-Sud che ci (noi, italiani) riguarda direttamente e quella Est-Ovest che riguarda i nuovi arrivati dopo l’allargamento del 2004. Lo sapevamo già allora che l’allargamento prima dell’approfondimento significava l’annacquamento. È a dir poco superficiale chi sostiene che allora non si doveva fare l’allargamento. La domanda da porsi è invece un’altra: che cosa sarebbe successo in Polonia, Ungheria, Bulgaria, Romania eccetera se l’allargamento non ci fosse stato? Basta guardare a che cosa è successo nella ex Jugoslavia e a che cosa succede ancor oggi in Ucraina.
A ventisette, a diciannove, a undici, a nove o a sei, l’egemonia sarà di fatto, lo si voglia o no, della Germania. È meglio per l’Europa nel suo insieme una Germania all’interno di un vincolo europeo rafforzato in un numero ridotto oppure un vincolo lasco per un gruppo più numeroso? Questo è il dilemma sul quale sarebbe utile un ampio e approfondito dibattito pubblico e sul quale si dovrebbero ridisegnare gli schieramenti politici. La Germania conta di più in un’Europa divisa, o in un’Europa unita, sia pure, ristretta?
Questa volta i cittadini non devono solo aspettare che piovano dall’alto le decisioni dei governi. Le campagne elettorali del 2017 avranno tutte al centro il tema dell’Europa e degli immigrati, certamente in Francia e Germania e, prima o poi, anche in Italia. Tutto lascia prevedere che siamo di fronte a una svolta nella quale si gioca il futuro del continente e questa volta a decidere saranno (anche) i popoli.
Sarà però utile riflettere sul fatto che il populismo nazionalista anti-europeo è solo un effetto, non una causa, della crisi dell’Unione. Le cause sono tante: l’assenza di visione e di leadership nei Paesi che hanno finora guidato il processo, la fragilità e la farraginosità dell’architettura istituzionale, la scarsa legittimazione democratica, la forza degli interessi finanziari e delle imprese multinazionali che lucrano sulla diversità dei sistemi pubblici e dei regimi fiscali e che non vedono negativamente la conservazione dello status quo e, infine, anche la forza di inerzia dell’esistente. Gli Stati nazionali, con i loro apparati burocratici, con i loro sistemi politici, con i sentimenti di appartenenza che riescono ancora a suscitare nelle popolazioni, possono durare ancora per secoli senza interrompere il loro declino. In fondo, di civiltà che sono declinate a lungo e sono scomparse lentamente, oppure in modo brusco e drammatico, la storia ne ha conosciute diverse. Se non facciamo qualcosa, questo potrebbe essere il destino anche dell’Europa.
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