La presentazione del ddl di revisione costituzionale recante “Introduzione dell’elezione diretta del presidente del Consiglio dei ministri e razionalizzazione del rapporto di fiducia” era un evento atteso. Le riforme rappresentano un punto essenziale dell’agenda di governo, come confermato, nei mesi scorsi, dalle ripetute dichiarazioni del ministro Calderoli, determinato a difendere il suo contestato progetto di autonomia differenziata, e della stessa presidente del Consiglio Meloni che, all’indomani della vittoria elettorale, ha affermato che avviare la revisione della Carta costituzionale, in virtù di un presunto mandato popolare, rappresenta per il governo un dovere.

La volontà espressa in questi ultimi giorni dalla stessa Meloni di chiudere la stagione pentastellata dell’uno vale uno rappresenta, al riguardo, un’indicazione preziosa per comprendere il disegno che fonda la sua proposta di riforma. Al di là dell’enfasi riservata al principio del merito – sul quale molto ci sarebbe da dire –, la soluzione prefigurata sembra preordinata ad affermare il principio opposto, fondato sulla premessa per la quale uno vale tutti.

La conseguenza di questa premessa, ossia la reductio ad unum del sistema, appare oggi come una superfetazione. Ciò di cui l’Italia non ha bisogno.

Per affrontare la crisi dei partiti – che da troppi anni investe gli assetti politici del Paese, impedendone lo sviluppo democratico –, per garantire una maggiore stabilità di governo, per evitare il ripetersi di governi cosiddetti tecnici, per ridurre l’eccessiva frammentazione politica, la soluzione da perseguire avrebbe dovuto essere un’altra: alimentare i canali della partecipazione popolare, rafforzare i luoghi della rappresentanza, ripensare le funzioni nella prospettiva di una rinnovata centralità parlamentare. E questo avrebbe voluto dire: mettere mano al bicameralismo (ormai svuotato e mortificato), ripensare il sistema elettorale in senso proporzionale (unica soluzione in grado di esprimere e rappresentare la plurale articolazione politica della nazione), prevedere in Costituzione strumenti diretti a rafforzare la stabilità di governo (come, ad esempio, la sfiducia costruttiva).

Nulla di tutto questo emerge dal disegno di legge sul premierato, che, nella migliore tradizione della destra italiana, si prefigge di assecondare le virtù del comando e perpetuare l’ossessione del capo. Un capo indiscutibile, la cui dilatazione dei poteri sarà tale da far assumere al suo governo una posizione di assoluta preminenza all’interno del sistema, a scapito del Parlamento e degli stessi organi di garanzia. Non è casuale che il sistema pensato, l’elezione diretta del premier, non abbia riscontri sul piano del diritto comparato, a parte la rovinosa esperienza israeliana nel periodo 1996-2001. I motivi del suo fallimento, per chiunque si occupi di politica e di analisi istituzionale, sono facilmente comprensibili: si tratta di un modello inutilmente rigido, destinato ad avvitarsi su se stesso, perché fondato sulla neutralizzazione artificiosa delle fibrillazioni politiche del sistema e sull’ingenua pretesa di scongiurare, attraverso confusi congegni normativi, le crisi di governo. Ci si riferisce al bizzarro escamotage contenuto nella riforma, in base al quale anche a fronte di un vistoso fallimento del capo plebiscitato, delle sue capacità di governo e delle sue politiche, queste continuerebbero provvidenzialmente a vivere, grazie alla contestuale assunzione dei poteri di governo nelle mani di “un altro parlamentare che è stato candidato in collegamento al presidente eletto” e al quale spetta ora il compito di operare in sua vece “per attuare le dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli impegni programmatici su cui il governo del presidente eletto ha ottenuto la fiducia”.

Il disegno di legge sul premierato, nella migliore tradizione della destra italiana, si prefigge di assecondare le virtù del comando e perpetuare l’ossessione del capo

La disposizione anti-ribaltone rappresenta il fiore all’occhiello del disegno di revisione: una norma giuridicamente sgangherata che, nel tentativo di blindare la durata degli esecutivi e, attraverso essi, l’intera legislatura, finirebbe per blindare anche il vincolo di ubbidienza dei parlamentari di maggioranza al loro capo: non solo a quello eletto, ma eventualmente anche al suo successore. Con buona pace dell’art. 67 della Costituzione, della rappresentanza della nazione e del divieto di mandato imperativo.

Anche Giovanni Sartori (non certo un sostenitore del sistema proporzionale, né del governo parlamentare), era solito liquidare il “divieto del ribaltare” come una stravaganza partorita dagli adepti della governabilità. Un espediente avulso dalle dinamiche della forma di governo e, pertanto, estraneo alla logica e alla prassi dei sistemi parlamentari. Nel parlamentarismo – ammoniva Sartori – è sempre consentito “scomporre, ricomporre e anche ribaltare una maggioranza di governo”, come dimostrato dalla stessa esperienza costituzionale inglese, nel cui ambito – come ha confermato con maggiore evidenza la prassi degli ultimi anni – il ricorso alle urne ha sempre costituito “un’ultima e dannatissima ipotesi” (G. Sartori, Un'occasione mancata? Intervista sulla riforma costituzionale, a cura di L. Morlino, Laterza, 1998, p. 114). Insomma – potremmo concludere – dal parlamentarismo razionalizzato allo staffettismo razionalizzato. L’unica spiegazione che può fornirsi a tale astrusa costruzione è, infatti, quella di riservare alla coalizione vincente la possibilità di cambiare leader in corsa, magari in virtù di accordi precedentemente assunti tra le parti politiche. Un’idea di democrazia ultra-governante, disintermediata e scaltra, nel cui ambito l’elezione diretta, lungi dal garantire stabilità, sbandierata come obiettivo, potrebbe operare da dispositivo per accordi interni alla coalizione.

La scelta di prevedere un premio di maggioranza abnorme (55%) per la coalizione vincente, senza soglia minima di accesso, costituisce, poi, un vero e proprio monstrum giuridico e politico. L’inserimento in Costituzione di un sistema elettorale siffatto (e, per di più, non nel titolo I, quello dedicato al Parlamento, come ci si sarebbe attesi, ma nel titolo III, quello intitolato al governo) serve esclusivamente a blindare la posizione di dominio del capo sul Parlamento. Un capo plebiscitato dal popolo e sostenuto da maggioranze artificialmente costruite, ma tuttavia in grado di esercitare il potere di revisione, di eleggere il presidente della Repubblica, i giudici costituzionali, i presidenti delle Camere. Certo, si potrebbe obiettare che anche in caso di approvazione della revisione sarà sempre possibile modificare il sistema elettorale. Ma per farlo, è bene ricordarlo, la strada sarà (come mai) in salita, essendo necessario attivare il procedimento lungo e aggravato previsto dall’art. 138 della Costituzione. Deve tuttavia ricordarsi che, con la sentenza n. 1 del 2014, la Corte aveva censurato severamente il premio di maggioranza e la sua attitudine a consentire a una lista che avesse ottenuto un numero di voti relativamente esiguo di acquisire la maggioranza assoluta dei seggi. L’obiettivo del giudice delle leggi, in quell’occasione, era rivolto a impedire distorsioni eccessive tra voti espressi e seggi attribuiti, in misura tale da compromettere l’eguaglianza del voto, garantita dall’art. 48 Cost.

Siamo in presenza di un vero e proprio stato patologico del sistema, che ci dice che in questi anni i poteri del governo non si sono ridotti, ma si sono dilatati a dismisura e in modo abusivo

Premio di maggioranza, elezione diretta, riduzione delle prerogative del capo dello Stato, spropositati poteri in capo al governo e a scapito del Parlamento. Queste le coordinate politiche e culturali della riforma costituzionale che, proprio per questo, non s’ha da fare. La sua entrata in vigore determinerebbe lo stravolgimento definitivo della nostra democrazia parlamentare, già ferita dallo strapotere esercitato dai governi in questi anni. Ogni riferimento al reiterato abuso dei decreti-legge (recentemente stigmatizzato dal Presidente della Repubblica), alle modalità di approvazione della legge di bilancio, alla compressione della discussione parlamentare, all’utilizzo sistematico della questione di fiducia non è casuale, ma voluto.

Siamo in presenza di un vero e proprio stato patologico del sistema, che ci dice che in questi anni i poteri del governo non si sono ridotti, ma si sono dilatati a dismisura e in modo abusivo. È questa espansione dissennata dei poteri di governo che dovrebbe oggi essere arginata. E invece – tamquam non esset – la riforma punta ad accrescere, ulteriormente, la posizione dell’esecutivo, indebolendo il Parlamento, marginalizzando le funzioni degli organi di garanzia, svilendo la rappresentanza democratica.

Un po' troppo per ritenere che il progetto del governo possa essere emendato, adattato, calibrato. Ed essere, quindi, reso più digeribile. Accettare di misurarsi su questo terreno con le destre di governo sarebbe un grave errore di strategia politica. O, peggio, di ingenuità. O, peggio ancora, un errore voluto che tradisce una evidente falsa coscienza costituzionale.