Sulle longevità politica di Shimon Peres, sulle sue opere come anche sui suoi giorni, si continuerà a scrivere nel tempo. Nella sua lunga esistenza, infatti, ha raccolto e catalizzato gli aspetti più significativi della vita dello Stato d’Israele, divenendone, insieme a pochi altri leader della sua levatura, la raffigurazione umana ed esistenziale, in ciò concorrendo anche alla profilatura culturale di un’intera comunità nazionale. Tralasciando le retoriche di circostanza, quelle per le quali con la morte di un «capo» si chiude inesorabilmente un’epoca, (equivalenza emotivamente comprensibile ma politicamente e storicamente non sempre fondata), rimane il fatto che egli ebbe in sorte di raccogliere il testimone della fondazione d’Israele, non appartenendo alla generazione dei padri fondatori (e in particolare di David Ben-Gurion e Levi Eshkol), ma formandosi politicamente senz’altro nel rapporto diretto e continuativo con il loro Inner Circle, per poi assumere, con gli anni Cinquanta e Sessanta – i due decenni dell’assestamento del Paese – un ruolo invece decisivo.
Non meno importante è il legame che sempre intrattenne con la sinistra sionista e con l’universo, non esclusivamente politico ma anche sociale e culturale, del laburismo israeliano: un vero e proprio circuito autosufficiente, composto anche da diverse sigle, tra di loro spesso conflittuali, traslatosi, come insieme di idee, donne e uomini ma anche di risorse e culture, nella duplice dinamica dei processi di National and State Building. Segnatamente, se l’impronta lasciata dalla coalizione generazionale di quelle persone negli anni dell’edificazione della comunità nazionale è stata molto forte, è non meno vero che essa si era già andata fortemente ridimensionando con la fine degli anni Settanta, quando elementi decisivi nella loro capacità strategica di definire gli orizzonti della società israeliana erano stati loro sottratti dall’affermazione elettorale di quello che sarebbe poi stato conosciuto come il «campo nazionale», ossia il novero delle forze raccoltesi prima intorno al Likud, allora il partito di Menachem Begin e Yitzhak Shamir, e poi articolatesi in un più ampio raggio di gruppi, movimenti e leadership, tutti però accomunati da una distinta impostazione rispetto all’impianto originario che forgiò Israele.
È in quel lungo lasso di tempo, ossia in quel decennio, infatti, che l’agenda israeliana conosce mutamenti di sostanza: dai conflitti con i Paesi arabi si passò alla questione israelo-palestinese; dalle priorità del consolidamento strategico – sotto la guida a tratti dirigista dell’amministrazione pubblica – si avviò il passaggio a una società inserita completamente dentro le dinamiche di relazione e scambio proprie dei Paesi occidentali a sviluppo avanzato, a partire dalla definitiva apertura a una economia di mercato. Non è un caso, peraltro, poiché uno dei noccioli ideologici della destra a quel punto assurta al potere era – in sintonia con l’affermarsi del pensiero neoliberale – quello di ridimensionare la funzione dello Stato nella determinazione dei processi sociali.
La vita di Shimon Peres, nato Szymon Perski tra Bielorussia e Polonia, emigrato a dieci anni nella Palestina mandataria, avviatosi a studi agrari e poi coinvolto nella politica durante gli anni della Seconda guerra mondiale, conobbe due grandi fasi. La prima, tra il 1947 e la fine degli anni Sessanta, lo vide operare prevalentemente come grand commis de l’Etat, laddove tuttavia la separazione tra livello amministrativo e piano politico era fragile se non spesso inesistente. Fondamentale fu quindi il suo ruolo nel modellare l’armamento dell’esercito israeliano secondo livelli, parametri e criteri di estrema efficienza e di assoluta efficacia: in accordo con l’impianto operativo della Nato ma in un regime di assoluta autonomia decisionale. Il duraturo legame con la Francia ne era il riscontro all’epoca strategico.
Fondamentale fu il suo ruolo nel modellare l’armamento dell’esercito israeliano secondo livelli, parametri e criteri di estrema efficienza e di assoluta efficacia
Con il 1969 intraprese quindi una lunga carriera politica (mentre già dieci anni prima era stato eletto al Parlamento) di fatto conclusasi solo con la sua morte, dove a fronte di un cursus honorum ministeriale di tutto rispetto (occupando, in successione, i dicasteri dell’«Assorbimento» dei migranti, dei Trasporti, delle Finanze, della Difesa, degli Affari esteri, per poi arrivare al premierato e infine alla presidenza d’Israele) si accompagnò sempre una faticosa relazione con il partito laburista, in ciò ripetutamente contrastata dal suo antagonista storico, Yitzhak Rabin.
Non è un caso se ci sia chi lo abbia sempre considerato, a tale riguardo, un «perdente di successo», tanto capace nel fornire a Israele il Decision Making necessario per le sue modernizzazioni infrastrutturali, quanto fragile nel tradurle in capitale politico premiante per sé e la sua parte politica. Il conferimento del premio Nobel per la pace, nel 1994, e poi il settennato di presidenza, tra il 2007 e il 2014, fanno da cornice a questa irrisolta ambivalenza. Così come il suo lungo rapporto con Ariel Sharon, del quale condivise più di una decisione.
L’opzione di un rapporto sufficientemente pacifico con gli Stati arabi, contemperato tuttavia dal ricorso misurato alla forza, era consustanziale al suo modo di intendere lo scambio con le società circostanti
Non ha molto senso interrogarsi su quanto Peres fosse per davvero un uomo di pace, se non addirittura «l’uomo della pace». Poiché l’opzione di un rapporto sufficientemente pacifico con gli Stati arabi, contemperato tuttavia dal ricorso misurato alla forza, era consustanziale al suo modo di intendere lo scambio con le società circostanti: ritenendo la potenza militare come un imprescindibile attributo della sovranità ma comunque subordinato alla funzione diplomatica. In questo, Peres fu forse il vero e più autentico prosecutore di un altro politico israeliano di alto rango, Aubrey Solomon Meir Eban, meglio conosciuto come Abba Eban, uno dei grandi padri della politica estera israeliana.
Di Peres rimane l’estrema capacità negoziale così come il suo talento nel disegnare e dare corpo a tessiture che contemperavano il realismo della politica di potenza regionale a una visionarietà razionale, basata sul bisogno di nutrire sogni e desideri. Qualcosa che lo distanziò sempre e comunque dalla reificazione della terra in cui, invece, altri si sarebbero identificati nel corso del tempo.
Riproduzione riservata