Le gravi accuse di abusi e molestie rivolte a Francesco Bellomo e la sua successiva destituzione dalla magistratura hanno fatto sì che non fosse analizzata con l’attenzione che merita una realtà preoccupante: gli incarichi extraistituzionali in base ai quali alcuni consiglieri di Stato svolgono – come faceva lo stesso Bellomo – un ruolo di direzione di corsi privati di preparazione ai concorsi in magistratura ordinaria. Chiunque decida di studiare per questo difficile concorso sa bene quanto le scuole private di magistratura siano personalizzate (portano, di fatto, il nome del giudice che le organizza); quanto ampia e diversificata sia la loro offerta didattica, quanto sia elevato il numero di volumi scritti o curati dai consiglieri di Stato nelle materie e con le soluzioni didattiche più varie, più o meno compendiose, il cui acquisto è di frequente raccomandato ai discenti per la preparazione degli esami. Il settore si è insomma stabilmente “industrializzato”, al punto da raggiungere un invidiabile livello di qualità in termini di editoria didattica, di efficacia degli insegnamenti impartiti e, a quanto sembra, di percentuali degli iscritti che superano le selezioni.
L’area di influenza delle scuole gestite dai consiglieri di Stato si è estesa fino a organizzare corsi privati di preparazione ai concorsi per la magistratura amministrativa. Dunque il medesimo ordine giudiziario al quale appartengono gli organizzatori. In queste selezioni, la commissione esaminatrice «è composta da un presidente di sezione del Consiglio di Stato o qualifica equiparata, che la presiede, da un consigliere di Stato, da un consigliere di tribunale amministrativo regionale e da due professori universitari ordinari di materie giuridiche» (art. 16 legge n. 186 del 1982).
Vale a dire che tre componenti su cinque hanno, in qualche città d’Italia, colleghi che offrono prestazioni di docenza a titolo oneroso per superare la selezione. «Spigoleremo tra le preferenze dei commissari di concorso», si legge nel manifesto diffuso nell’ottobre scorso da uno di questi corsi di preparazione, diretto da due magistrati, uno dei quali attuale presidente di sezione del Consiglio di Stato, l’altro “semplice” consigliere di Stato.
Nulla di male, da un certo punto di vista. Tutte le sentenze dei giudici amministrativi sono pubbliche (la giustizia amministrativa ha un proprio sito con motore di ricerca aggiornato giorno per giorno) e in calce a ogni pronuncia si legge il nome del giudice estensore. Risulta quindi facile, per tutti, catalogare le pronunce scritte dal medesimo magistrato e farsi un’idea della sua visione del diritto. Dunque, si potrebbe dire, se qualsiasi candidato può sforzarsi di capire per conto proprio gli orientamenti del giudice che lo esaminerà in veste di commissario, è lecito che lo faccia anche la scuola. Del resto, anche i professori universitari hanno orientamenti facilmente identificabili, attraverso le pubblicazioni. Eppure, i rapporti di colleganza tra i magistrati aventi qualifica di direttori scientifici del corso di preparazione al concorso pubblico e i tre quinti della commissione del concorso stesso, senza dire della posizione autorevole che alcuni direttori “privati” possono rivestire contemporaneamente in ambito giudiziario, costituiscono già una posizione privilegiata: una sorta di pantouflage o revolving doors che, a prescindere dal comportamento integerrimo dei magistrati, indebolisce l’immagine di imparzialità di cui la funzione giudiziaria deve sempre essere provvista agli occhi dell’opinione pubblica.
Era nell’aria che l’attuale presidente del Consiglio di Stato avesse intenzione di mettere un freno a questa prassi. Del resto, lo ha già fatto qualche anno fa il Consiglio superiore della magistratura con i magistrati dell’ordine giudiziario, ai quali, in forza di una circolare del 2015, l’organo di autogoverno ha vietato di organizzare scuole di preparazione al concorso in magistratura, ma non solo: di partecipare alla loro gestione, anche solo scientifica, e di svolgervi lezioni anche solo occasionali. La legge prevede che si applichino ai magistrati amministrativi, salve eccezioni espresse, le stesse norme previste per i magistrati ordinari in materia di sanzioni disciplinari (art. 32 legge n. 186 del 1982)
Pochi giorni fa, il 6 febbraio 2018, il Segretariato generale della Giustizia amministrativa ha diffuso un comunicato stampa nel quale si informa che l’organo di autogoverno della Giustizia Amministrativa (Cpga) ha approvato nuovi criteri per l’autorizzazione dei magistrati amministrativi allo svolgimento di incarichi di docenza. Le nuove regole stabiliscono che essi non possano insegnare in corsi privati di preparazione per i concorsi in magistratura amministrativa, riproducendo l’analogo divieto posto ai magistrati ordinari rispetto ai corsi di preparazione ai concorsi in magistratura ordinaria. Inoltre, venegono introdotte varie restrizioni relative ai compensi, al numero di ore di lezione, al luogo in cui si svolge la docenza autorizzata. Non è più consentito ai magistrati amministrativi di assumere il coordinamento o la direzione scientifica dei corsi (nemmeno quelli in magistratura ordinaria), «per evitare la personalizzazione degli stessi». È stato approvato infine il «codice deontologico di comportamento del magistrato nella docenza», che ha lo scopo di «promuovere una maggiore consapevolezza dei doveri etici a cui sono tenuti tutti i magistrati amministrativi, anche fuori dall’esercizio delle proprie funzioni giurisdizionali e consultive».
Il “caso Bellomo”, tra gli interrogativi che ha posto, ha dunque provocato un importante allineamento delle norme disciplinari della magistratura amministrativa a quelle della magistratura ordinaria. I problemi degli incarichi extraistituzionali dei giudici amministrativi non sono per questo risolti e, anzi, la “bussola” per una corretta regolamentazione di questa materia non è semplice da trovare. Non bisogna dimenticare che, secondo l’articolo 98 della Costituzione italiana, i pubblici funzionari sono «al servizio della Nazione». E non vi è nulla di più estraneo allo spirito democratico repubblicano della immagine del funzionario pubblico tenuto alla cieca obbedienza dell’autorità, a cui è impedito l’esercizio del diritto di insegnare. Ciò vale anche per i magistrati, ai quali la legge può imporre solo «limitazioni del diritto di iscriversi ai partiti politici». Questa è la cornice a cui va ricondotta la questione degli incarichi extraistituzionali dei pubblici funzionari. Essa serve a controllare che le attività retribuite, svolte al di fuori dei compiti d’ufficio, corrispondano all’esercizio di diritti e non siano incompatibili con l’adempimento dei doveri di disciplina e di onore. L’insegnamento, in quanto trasmissione del sapere, è per più versi un diritto fondamentale del magistrato, a patto che non minacci l’imparziale esercizio delle sue funzioni. L’industrializzazione della docenza per la preparazione dei corsi in magistratura ha forse passato questo segno.
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