L’estrazione, la lavorazione e la commercializzazione dell’asbesto in Italia sono bandite dal 1992. Ciononostante, la tragedia legata al suo utilizzo non è ancora finita: il picco delle morti per mesotelioma pleurico è atteso tra il 2020 e il 2025, a causa del lunghissimo periodo di latenza di questa neoplasia. Il nostro Paese è stato un grande produttore e consumatore di amianto, collocato al settimo posto mondiale, e proprio in Italia era situata la più grande cava di crisotilo (o “amianto bianco”) dell’Europa occidentale, a Balangero, in provincia di Torino. Ne aveva scritto anche Primo Levi ne Il sistema periodico: «C’era amianto dappertutto, come una neve cenerina: se si lasciava per qualche ora un libro su di un tavolo e poi lo si toglieva, se ne trovava il profilo in negativo».
Non vi è quasi stato settore produttivo che non abbia utilizzato l’amianto. Veniva impiegato nell’edilizia, in particolare – sotto forma di fibrocemento – nei tetti e nelle coperture, negli isolamenti termici e acustici, nei prefabbricati, nelle controsoffittature, negli intonaci, nelle canne fumarie, nelle tubazioni, nelle canalette per impianti elettrici e nelle barriere antifiamma, ma anche nei mezzi di trasporto (navi, treni, aerei) così come nei freni delle automobili e in molti altri ambiti.
Il cemento-amianto, uno dei motori dell’espansione edilizia italiana, era stato «il cemento armato dei poveri»: circa il 40% degli edifici costruiti tra il 1967 e il 1975 risultava trattato con asbesto
Il cemento-amianto, uno dei motori dell’espansione edilizia italiana, era stato «il cemento armato dei poveri»: circa il 40% degli edifici costruiti tra il 1967 e il 1975 risultava trattato con asbesto. Il suo impiego si estese anche a oggetti di uso comune, come una celebre sedia da spiaggia in fibrocemento progettata nel 1954 da uno dei più noti designer svizzeri dell’epoca, Willy Guhl. Persino i giocattoli non furono risparmiati: una ricerca dell’Azienda sanitaria e dell’Università di Firenze ha evidenziato come tra il 1963 e il 1976 nella composizione di una diffusa pasta per modellare fosse presente amianto per circa il 30% del totale.
La consapevolezza scientifica dei gravissimi danni che l’amianto avrebbe provocato non solo sui lavoratori ma anche su intere comunità, attraverso il mesotelioma pleurico (per il quale non è stata accertata una dose-soglia di esposizione), si acquisì proprio nel corso degli anni Sessanta, con le ricerche del sudafricano Chris Wagner e dello statunitense Irving J. Selikoff. Tali conoscenze faticarono a diffondersi tra la popolazione, tra le maestranze, nelle istituzioni pubbliche e nei sindacati stessi. Il lunghissimo periodo di latenza della patologia non aiutò, così come il silenzio e l’evasività delle dirigenze aziendali. In tal modo, in Italia come altrove, finì per disegnarsi una mappa di decine di luoghi nei quali la lavorazione dell’amianto ha generato migliaia di storie di malattia e di morte. Da Nord a Sud: Casale Monferrato (Eternit), Broni (Fibronit), Grugliasco (Sia), Cavagnolo (Saca), Balangero (Società amiantifera), Monfalcone (Fincantieri), Rubiera dell’Emilia (Eternit), Casaralta di Bologna (Officine ferroviarie), Pistoia (Breda ferroviaria), Senigallia (Sacelit), Cisterna di Latina (Goodyear), Bagnoli (Eternit), Avellino (Isochimica), Castellammare di Stabia (Fincantieri), Bari (Fibronit), Taranto (Ilva), San Filippo Mela (Sacelit), Priolo Gargallo (Eternit), Palermo (Fincantieri). E l’elenco potrebbe continuare. Per tutte queste vicende si sono aperti procedimenti giudiziari lunghi, complessi e dagli esiti contraddittori, come dimostra la recente sentenza di appello sul caso Olivetti.
Tra i casi più gravi di contaminazione spiccano quelli di Casale Monferrato e di Broni, connotati da un’altissima incidenza di mesoteliomi e di altre malattie asbesto-correlate dovuta alla presenza degli stabilimenti Eternit e Fibronit a ridosso del centro abitato. Le due cittadine distano meno di cento chilometri e si trovano in territori morfologicamente ed economicamente simili – il Monferrato e l'Oltrepò Pavese – caratterizzati dalla presenza di un territorio collinare e vitivinicolo alle spalle, e dall'apertura verso la pianura e verso alcuni centri industriali medio-grandi. In entrambi i casi la fabbrica, per le sue dimensioni, la sua collocazione in pieno centro urbano, la sua capacità di attrazione di manodopera, era entrata a far parte dell'identità cittadina. Tuttavia i tempi e i modi del disvelamento del rischio divergono in modo evidente, tanto fra gli attori politico-sociali quanto fra l'insieme degli abitanti: ciò ha generato una discorde modalità di percezione del pericolo, un diverso modo di confrontarsi alla fabbrica, una differente narrazione del rapporto tra cittadini, lavoratori e amianto, un difforme processo di costruzione sociale, psicologica e memoriale dell'identità cittadina, profondamente influenzata dal contatto con la fibra e dal pericolo tuttora incombente della malattia.
In un territorio come quello oltrepadano, caratterizzato da una industrializzazione tardiva e da una deindustrializzazione precoce, si è innescato un forte e totalizzante processo di rimozione e di rifiuto dello stigma della contaminazione
Nel centro piemontese, l’opera dei sindacati ha consentito di mobilitare la cittadinanza e la politica già nei primi anni Ottanta, al fine di individuare un percorso di uscita da quella produzione (che cesserà nel 1986). In tal modo, Casale è diventata l’emblema nazionale e internazionale di una lotta raccontata anche attraverso opere letterarie, graphic novel, film. Nel caso – sconosciuto ai più – della cittadina del Pavese, invece, nonostante una situazione sanitaria anche più pesante (in termini relativi), sindacati e amministratori hanno difeso la “fabbrica-città” fino all’ultimo, tanto che lo stabilimento ha chiuso solo nel giugno 1993, sfruttando al massimo le deroghe previste dalla legge 257/1992. Insomma, in un territorio come quello oltrepadano, caratterizzato da una industrializzazione tardiva e da una deindustrializzazione precoce, si è innescato un forte e totalizzante processo di rimozione e di rifiuto dello stigma della contaminazione, con ricadute serie sulla bonifica del territorio (in grave ritardo rispetto a quella casalese), sulle vicende processuali e sul tessuto associativo ambientalista e antiamianto, nato vent’anni dopo quello piemontese. La stessa elaborazione dei lutti ha faticato a diventare collettiva, restando a lungo confinata nell’ambito privato.
Queste due modalità opposte di cristallizzazione della memoria collettiva di un disastro industriale tendono a sovrapporsi in modo conflittuale nei tessuti industriali più ampi e complessi, come per esempio nel caso di Taranto, con un ventaglio di visioni urbane che vanno dalla “invisibilizzazione” della fabbrica, per esorcizzare lo spettro della sua chiusura e della conseguente disoccupazione, alla sua “ipervisibilizzazione” quale fonte di tutti i mali della città (trascurando magari fattori diversi e più risalenti di crisi ambientale e sociale). Anche in questi casi le ricadute possono essere così forti da rendere estremamente complessa l’azione dei pubblici poteri nella gestione dell’emergenza e della bonifica e nella ridefinizione degli assetti urbanistici ed economici della città.
Riproduzione riservata