“Abbandonati in un limbo, in uno stato d’incertezza giuridica relativamente al riconoscimento legale della loro unione, di cui sarebbero titolari in virtù della Costituzione italiana”. È questo il rimprovero mosso dalla Corte europea dei diritti umani nella sentenza del 21 luglio 2015 (disponibile in italiano su Articolo29.it), che ha condannato l’Italia per non aver a oggi introdotto alcuna legislazione a “riconoscimento e protezione” delle unioni omosessuali.
Siamo, infatti, l’unica democrazia occidentale a non aver ancora affrontato seriamente il tema, e basta guardare una mappa dell’Europa per rendersi conto che, in un puzzle europeo colorato d’arcobaleno, il tassello italiano è l’unico ancora pallidamente incolore. Il paradosso è che a inchiodare il Parlamento alle proprie colpevoli omissioni è un giudice sovranazionale che si è mosso dopo che, per anni, le nostre corti nazionali, Corte costituzionale e Corte di Cassazione in testa, hanno invano richiamato il Parlamento ai propri doveri costituzionali.
Non è difficile ricostruire le ragioni di questo “eccezionalismo” tutto italiano: l’incapacità, da parte della classe politica, di cogliere le esigenze vitali dei suoi elettori; la tendenza della politica a subappaltare temi delicati come i “diritti civili” alla sfera della morale, al deliberato scopo di sottrarli al gioco democratico; la congenita pigrizia del legislatore, ormai sottomesso alle logiche delle “larghe intese”; infine, la grave crisi di rappresentatività che attraversa il nostro Paese, con conseguente recisione di ogni collegamento tra politica e società.
Possiamo solo immaginare l’imbarazzo provato dallo stesso governo italiano, impegnato a sostenere dinanzi alla Corte europea una posizione ormai indifendibile pure sul piano interno. Questi - è arrivato a scrivere nelle proprie memorie - sono temi che “impattano la sensibilità degli individui e la loro identità culturale”, sicché occorre attendere di “raggiungere una maturazione graduale di un senso comune della comunità nazionale sul riconoscimento di questa nuova forma di famiglia”. E poi, ha aggiunto, gay e lesbiche sono già riconosciuti e protetti, potendo disporre sia dei “registri delle unioni civili” a livello comunale, sia di “contratti di convivenza” con cui regolare i propri rapporti.
La Corte, ovviamente, non gli ha creduto. Anzitutto, i dati forniti dall’Istat dipingono un ritratto di una società molto più aperta di quanto non affermi il governo, una società che patisce le gravi discriminazioni esistenti nei confronti di gay e lesbiche, ma che, ciò nonostante, si dichiara pronta ad affrontarle e superarle (il 66% degli intervistati, ad esempio, sottoscrive che “è possibile amare una persona di sesso opposto o dello stesso sesso, ciò che importa è l’amore”). Poche note bastano poi per smentire l’illusione dei registri comunali e dei contratti di convivenza, gli uni limitati al 2% dei comuni italiani, dunque insignificanti e “meramente simbolici”, i secondi inidonei ad “assicurare alcuni bisogni di base di una relazione di coppia stabile e responsabile”.
Secondo la Corte, nel necessario bilanciamento tra gli interessi delle coppie omosessuali e quelli della società italiana nel suo complesso, il legislatore non è stato in grado di fornire alcun argomento a supporto di questi ultimi, mentre “non pare aver attribuito particolare importanza alle indicazioni provenienti dalla comunità nazionale”.
Soprattutto, ciò che a Strasburgo non è stato possibile digerire è che il nostro Parlamento abbia ripetutamente ignorato i continui moniti delle stesse corti italiane. "[I]gnorare una sentenza finale ed esecutiva", scrive la Corte, "è un atto inspiegabile in termini d’interesse pubblico o d’interessi della comunità nel suo complesso", che "mina alla radice la credibilità e l’autorità del potere giudiziario, mettendone a rischio l’effettività, tutti fattori di grande importanza dal punto di vista dei principi fondamentali che sono alla base della Convenzione europea dei diritti umani".
Lo Stato ha dunque il dovere di agire in buona fede nell’interesse dei propri cittadini. Questo finora non è stato fatto, e la sentenza di condanna di Strasburgo lo dice espressamente. Ora il Parlamento dovrà agire, e in fretta, per evitare che questa ferita cronica nei diritti fondamentali si trasformi in un’emorragia incurabile.
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