Di questi giorni è la notizia che la celeberrima «Natività» di Caravaggio, già nell’Oratorio di San Lorenzo a Palermo e da lì rubata dalla mafia nel 1969, è stata rimpiazzata nella sua sede storica con una copia. Un’operazione sacrosanta, col suo risarcire l’ennesimo delitto realizzato da una delle forze criminali più aggressive e oscure e nel vero impunite che si muovono nel nostro Paese. Ma operazione non così sacrosanta quando vista da altre angolazioni. Diciamo allora subito che non si tratta di problemi relativi al viatico storicistico «originale-falso» tipico dei nostri tempi. Basti, a smontarlo, il dire che conosciamo l’arte statuaria della greca antica quasi solo grazie alle copie romane, come si accorsero già nel 1722 i due Richardson, scrivendolo nel celebre Account del loro viaggio in Italia, e come di recente ci ha fatto vedere Salvatore Settis in una bella mostra veneziana; mentre gli scavi di Baia hanno rimesso in luce addirittura una fabbrica di calchi in gesso di sculture greche.

Quali sono, allora, gli inediti problemi posti dalla copia di Palermo? Sono nel tipo di copia. Una di quelle realizzate dall’artista britannico Adam Lowe con il suo sistema di scansioni a colori senza contatto che produce copie identiche all’originale storico, non solo per quanto riguarda i colori, ma soprattutto perché in 3D, quindi con la stessa costituzione fisica tridimensionale del manufatto di partenza. Il che crea molti corto-circuiti. Ad esempio, che ne sarebbe del patrimonio artistico che vanta il più alto numero di originali dell’Occidente, il nostro, qualora si abbattesse sull’intero pianeta un numero incontrollato e incontrollabile di loro copie in 3D? Se ne otterrebbe una banalizzazione per sempre? La stessa di cui è avvisaglia l’aver collocato, a Caravaggio, in provincia di Bergamo, le copie di Lowe delle tele dipinte dal Merisi per un cardinale francese, ma nei fatti romano, Matteo Contarelli, nella chiesa romana di San Luigi dei Francesi? E come la mettiamo rispetto all’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica di Walter Benjamin, dicendoci il filosofo tedesco, riferisco alla buona, che le fotografie (era il 1936 e allora c’erano solo quelle) comunque non conservano l’hic e il nunc dell’aura che solo l’opera originale possiede? Per la copia in 3D delle «Nozze di Cana» di Paolo Veronese, l’hic e il nunc dell’aura sono nell’odierna collocazione al Louvre, dove la grande tela autografa è finita in seguito alle razzie napoleoniche, oppure li troviamo nell’originaria sede del refettorio di San Giorgio Maggiore, a Venezia, dove Lowe ha collocato la sua copia in 3D? E se a Urbino, la città dove Raffaello è nato, ma che di lui non conserva alcuna opera certa, si esponessero le copie 3D di tutti i suoi dipinti, ivi compresi gli affreschi delle Stanze Vaticane, che differenza ci sarebbe, sempre a proposito di aura, con gli arazzi seicenteschi realizzati su disegni dell’urbinate d’un secolo prima, arazzi oggi normalmente esposti in giusta pompa (e aura) nel Salone del Trono di Palazzo Ducale? E che ne è del problema conservativo quando Lowe, da una parte, meritoriamente riproduce le lastre ossidate delle incisioni di Goya, rendendone così possibili nel tempo nuove ristampe, e, dall’altra, duplica un patrimonio che già non riusciamo a custodire da solo?

Quindi? Quindi siamo sempre e solo di fronte al solito problema. L’unica cosa che nessuna «scansione senza contatto» o «stampante in 3D» potrà mai replicare al vero è la caratteristica che rende il patrimonio storico artistico italiano, prima che meraviglioso, unico al mondo: il contesto ambientale in cui è andato infinitamente sedimentandosi nei millenni, la sua onnipresenza sul territorio. Il che significa che il solo modo con cui il Mibact può contrastare vittoriosamente una deriva che, nel mondo di internet, nessun copyright può fermare, è di attuare finalmente una politica di tutela contestuale del patrimonio artistico con l’ambiente, vedendola non solo come decisiva azione conservativa, ma anche come sola e vera valorizzazione del patrimonio artistico. Una valorizzazione civile, concreta e, questa sì, economicamente produttiva, che finalmente abbandoni il luogo comune miope e indigente della rendita economica del patrimonio artistico attraverso biglietti d’ingresso a musei, concerti, proiezioni cinematografiche o rappresentazioni teatrali, ovvero con il far pagare affitti per sfilate di moda, matrimoni e quant’altra dilettantesca e improvvisata soluzione «fai da te» di norma oggi proposta dagli addetti ai lavori su giornali, radio e televisione, quasi si trattasse di gestire centri commerciali.

Ma perché mai nessun ministro dei Beni culturali ha finora realizzato una politica di conservazione del patrimonio artistico in rapporto all’ambiente, limitandosi a nominarla (e a tradirla) nell’articolo 29 del nuovo Codice? Per l’immenso ritardo culturale del settore, da sempre nelle mani di soprintendenti formati in un’università annosamente intenta a insegnar loro che il problema della tutela coincide con il restauro e il restauro con il metafisico restauro tra storicistico e estetico di Argan e Brandi, quello tutto buchi e lacune nel gusto dell’arte astratta, ovvero intenta a insegnare loro come si fa, in forza di vincoli e notifiche solo in negativo, a impedire sia la dispersione del patrimonio artistico in mano privata, sia l’aggressione al territorio da parte della speculazione edilizia (e i danni fatti con gli infiniti restauri estetici conservativamente inutili? E la colposa esportazione di un rilevante numero di capolavori? E il disastro urbanistico delle periferie?). L’immenso ritardo culturale inverato nella morte dell’Istituto centrale del restauro (Icr), istituzione che fino ai primi anni Ottanta del Novecento è stata una delle eccellenze tecnico scientifiche che l’Italia poteva vantare nel mondo intero senza timore di far ridere nessuno e fatta morire lasciandone la direzione che era stata di Brandi e Urbani nelle mani di grigi funzionari ministeriali senza una minima idea in testa di cosa siano, nell’oggi, restauro, conservazione e tutela. Morte dell’Icr esemplarmente attestata dal grottesco restauro della Vela di Cimabue crollata a terra dalla volta della Basilica di Assisi per il terremoto del 1997, oggi restituita dall’Icr in pochi frustoli di colore che galleggiano su una superficie «neutra», rendendo quel già gloriosissimo dipinto murale in un manufatto inservibile sul piano iconografico, superfluo su quello estetico, insignificante su quello storico, accessorio su quello conservativo.

Soluzioni? Una sola. Riconoscere l’enorme danno fatto da Spadolini, prima al Paese, poi al patrimonio artistico, con l’aver a tutti costi voluto fondare il Mibact. Dopodiché murare senza preavviso le porte del Mibact spadoliniano, per creare al suo posto una piccola e agile Agenzia per la tutela diretta da pochi, leali e davvero preparati funzionari scelti in via rigorosamente meritocratica. Un’Agenzia che abbia il compito d’elaborare Piani regionali di conservazione programmata del patrimonio artistico in rapporto all’ambiente e di coordinare e controllare modi e tempi della loro attuazione nel territorio. Un’Agenzia che concordi quei Piani con enti locali, Chiesa, Fai, dimore storiche, privati proprietari, università e chiunque altro ci stia, attuandoli sulla base di una nuova legge di tutela incardinata, appunto, alla conservazione programmata, inoltre potendo utilizzare, in quanto Agenzia e non più ministero, anche gli strumenti di diritto privato, cioè applicare il Codice civile. L’Agenzia che quarant’anni fa volevano – contro la creazione del Mibact – il padre del diritto amministrativo dell’Italia repubblicana, Massimo Severo Giannini, e chi gli aspetti tecnico scientifici e organizzativi della conservazione programmata ha messo a punto in dettaglio, Giovanni Urbani.