Il Super Tuesday ha dato un ulteriore slancio alla corsa alla nomination presidenziale di Donald Trump e Hillary Clinton. I favoriti del momento hanno conquistato sette Stati a testa sugli undici in palio, consolidando il proprio vantaggio sugli sfidanti. Considerato tradizionalmente uno degli appuntamenti decisivi delle primarie presidenziali, il supermartedì assegna 595 delegati per i repubblicani (quasi la metà dei 1.237 necessari per conquistare la nomination) e 880 per i democratici (un terzo dei necessari per raggiungere la soglia dei 2.383). Seguendo come ordine quello della popolazione degli Stati coinvolti nelle primarie del primo martedì di marzo, hanno votato Texas, Georgia, Virginia, Massachusetts, Tennessee, Minnesota, Colorado, Alabama, Oklahoma, Arkansas, Alaska, Vermont e Samoa Americane.
Si va da uno Stato di quasi trenta milioni di abitanti come il Texas alle Samoa Americane, 55 mila abitanti che non hanno nemmeno il diritto di voto alle presidenziali, ma possono comunque esprimere la propria preferenza sul candidato del proprio partito di riferimento alla nomination. L'elettorato coinvolto nel Super Tuesday è molto eterogeneo per livelli di reddito, estrazione sociale e tradizioni politiche. La varietà della composizione demografica di questi Stati è imparagonabile a qualsiasi tornata di primarie, con Stati a netta maggioranza bianca (come il Massachusetts e il Minnesota) e altri in cui le minoranze sono decisive. I latinos costituiscono il 38% della popolazione in Stati come il Texas e il 20% in Colorado, gli afroamericani in alcuni Stati del Sud rappresentano una percentuale di votanti compresa tra il 20% e il 30%.
Tra i democratici, non ci sono state grandi sorprese, fatta eccezione per il “bianco” Massachusetts in cui risiedevano molte delle speranze di rincorsa di Bernie Sanders, e che ha invece premiato Hillary Clinton con un distacco di meno di due punti percentuali. Sanders sembra aver consolidato il suo seguito tra giovani, bianchi, liberal ed elettorato maschile, vincendo come da previsione in Colorado, Minnesota, Oklahoma e nel suo Stato, il Vermont. La sua rincorsa non ha perso entusiasmo e continua ad affascinare delusi e progressisti tra gli elettori democratici. Solo nel mese di febbraio ha attratto circa 42 milioni di dollari per la sua campagna elettorale senza, com'è noto, comitati elettorali di un certo peso finanziario né Super Pac; ha investito 7 milioni di dollari in spot pubblicitari per il solo appuntamento del Super Tuesday, ma non è riuscito a frenare l'avanzata di Hillary Clinton, soprattutto negli Stati dove le minoranze sono decisive. Tra i sette Stati conquistati dall'ex first lady, figurano Texas, Georgia, Virginia, Alabama, Tennessee (che si aggiungono al South Carolina, conquistato a fine febbraio) e, ovviamente, l'Arkansas, dove suo marito Bill è diventato il più giovane governatore eletto nella storia degli Stati Uniti nel 1979 (in carica fino alle elezione da presidente nel 1992). In questo Stato, Hillary ha trionfato con percentuali del 91% tra gli elettori afro-americani, in Texas ha conquistato oltre l'80% tra gli ispanici, altro blocco elettorale decisivo per l'ascesa di Barack Obama.
Le minoranze sembrano premiare le posizioni più moderate e realiste di Hillary in tema di diritti civili, immigrazione e lotta alla povertà, mentre non sembrano in sintonia con l'immaginario di Bernie Sanders. Ma non è solo una questione di minoranze, come ha dimostrato il blocco elettorale molto eterogeneo che ha premiato l'ex segretario di Stato in Massachusetts, a Boston, nelle realtà rurali (come gli altri Stati del Sud) e nelle città medio-piccole della working class dello Stato della senatrice Elizabeth Warren, tra i più noti e influenti alleati di Sanders. L'allocazione proporzionale nell'assegnazione dei delegati democratici di ciascun Stato lascia ancora speranze al senatore del Vermont, ma il voto del 15 marzo in Ohio, Illinois, North Carolina e Missouri potrebbe lanciare definitivamente alla nomination presidenziale della sua rivale. Hillary Clinton gode, inoltre, dell'appoggio quasi plebiscitario dei super delegati democratici, tra storici attivisti e figure di rilievo dell'establishment democratico, ex governatori ed ex presidenti che prenderanno parte alla convention di Philadelphia a fine luglio.
Tra i repubblicani continua la corsa di Donald Trump, a dispetto delle previsioni di qualche mese fa e dei recenti scivoloni, dal botta e risposta con papa Francesco sul tema dell'immigrazione al retweet di un famoso slogan mussoliniano, che sembrano aver avuto risalto e conseguenze soprattutto sull'opinione pubblica internazionale. Trump è riuscito infatti a prevalere in maniera piuttosto trasversale in Stati profondamente diversi, conquistando dopo il New Hampshire il blocco repubblicano bianco, moderato e legato alla working class di Stati quali il Massachusetts e il Vermont. Le vittorie in Alabama, Arkansas, Georgia, Tennessee e di misura in Virginia ne mettono il luce l'appeal nella cosiddetta Bible Belt, dove i conservatori evangelici hanno un peso specifico molto rilevante tra elettori e simpatizzanti del G.O.P. Ted Cruz, che sembrava in grado di intercettare questo tipo di elettorato con il sorprendente esordio vittorioso nelle primarie in Iowa, ha deluso le attese, ma è riuscito a salvare il suo Super Tuesday grazie all'Alaska, all'Oklahoma (dove Trump sembrava in vantaggio) e alla vittoria, ampiamente prevista, nello Stato che mette in palio il più alto numero di delegati, il suo Texas, che l'ha eletto come senatore nel 2012. La sua strategia finalizzata a consolidare il voto evangelico nel Sud e in altri Stati era già stata sconfessata dalla vittoria di Donald Trump in Nevada, dove il magnate newyorchese si era guadagnato il 40% dei voti evangelici, ma il senatore Cruz resta ancora in corsa.
Con il 71% di delegati ancora da assegnare, la partita non è ancora chiusa, ma Trump è in vantaggio in tutti gli Stati industriali del Midwest, a eccezione dell'Ohio dello sfidante John Kasich. Marco Rubio non perde le speranze dopo la sua prima vittoria, in Minnesota, ma la strada è ancora in salita per il giovane senatore di origine cubana. Anche lui senza una strategia chiara o una coalizione di riferimento, ha trovato riscontri nelle famiglie ad alto reddito dei suburb, soprattutto nei dintorni di Washington DC e in Virginia, ma ha finito per contendersi e dividersi le preferenze di questa fascia di elettori con l'altro candidato più vicino all'establishment repubblicano, il moderato John Kasich. Così, per un soffio, non è riuscito a strappare la Virginia a Trump, finendo per prevalere solo in Midwest. La sua Florida, che Rubio rappresenta in Senato dal 2011, il 15 marzo darà indicazioni di voto importanti, forse decisive, sulle sue sempre più complesse possibilità di rimonta. Ancora una volta le divisioni interne dei rivali di Trump, non in grado di convergere da mesi su un nome affidabile e traversale, si dimostrano molto utili alla causa dell'attuale super favorito. Come dimostra la percentuale di repubblicani ostili alle politiche del governo federale che si stanno presentando alle urne, solo Trump sta riuscendo a intercettare questa voglia di riscatto dei repubblicani dopo otto anni di presidenza Obama, con una distanza ideologica e generazionale tra base elettorale e partito sempre più incolmabili.
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