Io c’ero. Nove anni fa, a Bruxelles, ero lì. Nella grande sala del Palais des beaux arts scrutavo incredula questo giovanotto bruno, tutto italiano, determinato e sorridente. Roberto aveva gli occhi lampeggianti, li vedevo scintillare da lontano, appollaiata su un placido palco, una tra duemilaseicento persone silenti. Nella cieca oscurità del teatro, al suo centro, un cuore batteva a tempo di musica, sereno del suo ritmo voluto. Quegli occhi scuri al primo sguardo, ma che assumono una qualità chiara, cangiante alla luce del suo proprio fuoco, guardavano uno dopo l'altro ai trentuno giorni di gara con la concentrazione di chi sa che tutto è nelle sue mani. Il pianista aveva appena compiuto ventidue anni, ma era già un uomo.
Roberto Giordano viene dalla provincia di Vibo Valentia. Mileto, una cittadina di niente o di poco, della nostra Calabria bella e ferita. Un talento innato per il pianoforte, una passione totale, accondiscesa con amorevole attenzione da mamma Antonietta e da papà Giuseppe. Ma Roberto ha sempre avuto, oltre al lampo, la visione. Quando è partito per il Belgio, per partecipare al Concours reine Elisabeth, lui si vedeva lì già da tempo. Si era allenato per quattro anni a immaginarsi nella salle intitolata a Henry Le Boeuf. In anticipo aveva sentito su di sé lo sguardo investigativo delle telecamere, che ti indagano in ogni respiro. Lì il pianoforte è cosa seria. E dà spettacolo.
Roberto è arrivato nel cuore dell'Europa partendo dal Sud. Ma già in Calabria viveva come a Bruxelles. Si era preparato per otto ore al giorno al piano, e al tavolino studiava nei minimi dettagli i programmi dei centotrenta partecipanti all'edizione del 1999. “Volevo entrare nella testa dei giurati”, per calibrare ogni piccolo aspetto del suo repertorio vincente e non lasciare nulla al caso. Fu così che scelse le sue cinque ore e mezza di musica mai eseguite in pubblico prima d'allora. Il Reine Elisabeth è sfiancante, nessun'altra competizione impone così tante note da imparare a memoria, è una prova che ti sfibra fisicamente e psicologicamente, sino alla settimana di clausura della Chapelle, in cui i finalisti si trovano rinchiusi a imparare un pezzo nuovo notte e giorno, con il divieto di telefonare, dialogare, guardare la televisione.
“A diciott'anni vidi un documentario sul Concorso. Se ne parlava come la più importante gara musicale del mondo. Sentii che volevo un posto su quel podio, ma non il primo premio... tanti grandi del passato ne erano usciti laureati, ma non vincitori assoluti. Terzo Arturo Michelangeli nel 1939, e come lui furono tra i premiati Lazar Berman e Maria Tipo. Così mi preparai per suonare sin dal primo istante con la convinzione di chi si sente tra i primi sei”. Il primo premio non ha mai interessato Roberto, perché “se hai già raggiunto il massimo, sei destinato al declino. E io non volevo diventare una meteora. Volevo una sfida da cui ripartire per lavorare seriamente. Volevo acquisire il vantaggio di chi ha ancora la riserva nel serbatoio... di chi si trova a inseguire e dunque ha tutto da guadagnare”.
Così Roberto ha vinto. Non il primo premio, ma il quarto. Che gli ha cambiato la vita, perché lui se l’è voluta cambiare. In Belgio ha comprato una casa, oggi insegna in una prestigiosa accademia musicale, l’Imep di Namur, per chiara fama. Il Belgio lo ama, ma lui serba Mileto nel cuore. Con sua moglie Emanuela, con la famiglia che è tutta con lui e con una squadra di amici pronti a scendere in campo con lo stesso suo sorriso, ha dato vita a un sogno. Nel luglio 2011 è nato il Cantiere musicale internazionale, ospite nel Palazzo San Giuseppe del convento delle suore giuseppine. Il frutto più bello di un altro concorso, un bando della regione espugnato grazie alla voglia di vincere una sfida all'ennesima potenza: dimostrare che si può investire proprio qui, nella musica classica.
“Un esempio di investimento sano, una s.r.l., perché oggi e domani i miei ragazzi possano lavorare per la cultura laddove non c'è cultura. Dove tanti politici si riempiono la bocca... ma poi cosa fanno per valorizzare i nostri beni?”. Roberto si riferisce al passato remoto della sua città, la cui gloriosa antichità appare oggi come una vasta congerie di ruderi, sin da quando il terremoto del 1782 la fece franare a valle, inghiottita dalla sua stessa terra. Sotto questa cittadina che profuma di finocchio selvatico, mentuccia e origano, dove le donne preparano ancora i maccheroni fileja e le ciambelline fritte di patate e zucchero curudicchie, giace sepolta un'altra intera città. Città d'elezione di re Ruggero in età normanna e prima ancora fiorente insediamento bizantino, che Roberto ha voluto ricordare in alcuni coraggiosi concerti “disturbati solamente dal rumore delle stelle”, riparati dalle antiche mura radicate nel poggio originario, da cui è possibile scorgere, tra le colline e i monti, lo stretto di Messina e dall'opposto lato Torre Galli. E dove oggi pascolano le pecore.
Tante storie si sono incrociate al Cantiere. Un luogo di tutti, che conta già un'ottantina di allievi, ragazzi del luogo e molti ancora accorsi dall'estero per i corsi estivi. Come nel caso di Umbina, ventunenne serba, tante ore di duro studio che si paga prestando lavoro in un bar. Innamorata del sogno di Roberto. Un giorno si è presentata fuori della sua classe, a Namur, per studiare con lui. Quest'estate è venuta sino al Cantiere: ventisei ore di viaggio in “autocarro” da Liegi a Napoli, una notte trascorsa in stazione, poi un treno fino a Lamezia, e un altro destinato a Mileto. Al suo arrivo, Roberto le portò alcune leccornie per ristorarla. Umbina le accettò con garbo, chiedendo però di andare subito a studiare. Il tempo di aprire il coperchio, sistemare lo sgabello e la Centodieci di Beethoven, il brano che aveva ascoltato dal suo maestro nella semifinale di Bruxelles, esondava dalle mura del Cantiere.
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