Con punteggio quasi tennistico, la scorsa settimana la Corte costituzionale ha chiuso la partita dei referendum, dichiarandone ammissibili cinque e bocciandone tre. Questa nuova ondata referendaria è stata favorita dalla raccolta telematica delle firme, in taluni casi decisiva (in relazione, ad esempio, al referendum sulla cannabis) per il raggiungimento del numero minimo di sottoscrizioni (pari a 500 mila, secondo quanto previsto dall’art. 75 della Costituzione). Il sostegno popolare non è bastato a spingere verso l’ammissibilità i quesiti più sentiti dall’opinione pubblica, come quelli sulla cosiddetta eutanasia legale e sulla cannabis.
In attesa di leggere le motivazioni delle decisioni (in parte anticipate da una inedita conferenza stampa del presidente della Corte costituzionale, Giuliano Amato), l’esito può risultare sgradito ma non sorprendente: molti sono i limiti cui va incontro, nel nostro ordinamento, questo istituto, finalizzato all'abrogazione popolare di una legge. Esso incontra una lunga serie di limiti e condizionamenti: oltre all’alto numero di firme richieste per la sua proponibilità, alla necessità di svolgere la consultazione entro periodi predeterminati (non è possibile, ad esempio, tenere le operazioni referendarie contestualmente alle elezioni politiche), al quorum richiesto affinché la deliberazione sia valida (deve recarsi alle urne almeno la metà più uno degli aventi del diritto al voto), non sono ammissibili quesiti referendari diretti ad abrogare leggi tributarie, di bilancio, di amnistia e indulto, di autorizzazione alla ratifica di trattati internazionali.
A questo elenco, la Corte costituzionale, con una giurisprudenza piuttosto creativa, ne ha aggiunti molti altri: ad esempio, non è ammissibile intervenire, per via referendaria, su Costituzione, leggi costituzionali o leggi direttamente attuative di una disposizione o di un principio costituzionale; non è consentito abrogare integralmente leggi «necessarie», leggi cioè che, per Costituzione, devono necessariamente esistere, magari per consentire il funzionamento di organi costituzionali (come le leggi elettorali per il Parlamento), né è possibile incidere su leggi che eseguono, a livello interno, obblighi sovranazionali o internazionali. Lo stesso quesito deve rispondere, secondo la Corte costituzionale, a una formulazione tale da consentire all’elettore di esprimere un voto consapevole (il quesito deve essere chiaro, omogeneo e univoco).
Nel nostro ordinamento, vi è una generale sfiducia per gli strumenti di democrazia diretta, che traspare sin dal testo costituzionale: in una società di massa organizzata in partiti, è il Parlamento la sede istituzionale deputata ordinariamente all’assunzione di decisioni politiche
Nel nostro ordinamento, vi è una generale sfiducia per gli strumenti di democrazia diretta, che traspare sin dal testo costituzionale: in una Costituzione che doveva riflettere, secondo l’intenzione dei costituenti, una società di massa organizzata in partiti, è il Parlamento la sede istituzionale deputata ordinariamente all’assunzione di decisioni politiche. Il referendum abrogativo (tra i pochi istituti di democrazia diretta disciplinati direttamente in Costituzione) avrebbe dovuto svolgere una funzione residuale e contromaggioritaria di difesa della società civile contro gli eccessi del potere legislativo.
Il mutamento del sistema dei partiti, oramai inidonei a mediare e trasformare le rivendicazioni sociali, insieme a un diffuso conservatorismo istituzionale, che ha impedito l’aggiornamento di un circuito democratico-rappresentativo sbilanciato sulla rappresentazione dell’interesse generale piuttosto che sulla sua realizzazione, ha portato a un nuovo ruolo del referendum abrogativo: quest’ultimo ha svolto, soprattutto in alcuni momenti della storia repubblicana (si pensi ai referendum di inizio anni Novanta sui sistemi elettorali), una funzione propulsiva, di stimolo di un sistema politico-istituzionale bloccato o comunque incapace di assumere decisioni fondamentali per lo sviluppo della società. Questo rinnovato ruolo si è però scontrato con la prudenza delle Corte costituzionale, che ha continuato ad appellarsi alla sua restrittiva giurisprudenza per sbarrare la strada a molte richieste referendarie.
In futuro, grazie alle modalità digitali di raccolta delle firme, le proposte referendarie potrebbero aumentare, portando a una sovraesposizione del giudice delle leggi, chiamato a un difficile ruolo di mediazione «arbitrale» tra il legislatore rappresentativo e quello popolare. Di qui forse, l’opportunità di ripensare i suoi orientamenti.
In fondo, le democrazie liberali contemporanee combinano gli strumenti della democrazia diretta con gli strumenti della democrazia rappresentativa, principalmente quelli elettorali. Votando, i cittadini scelgono i propri rappresentanti e li autorizzano a decidere su questioni pubbliche di fondamentale interesse. I rappresentanti non sono soggetti a un mandato imperativo, per cui possono filtrare le preferenze dei loro elettori in modo da confrontarsi e decidere perseguendo l’interesse generale. Devono, poi, operare nel rispetto di regole e limiti condivisi dall’intera comunità politica a garanzia dei diritti di ciascuno. Le Costituzioni rigide, come la nostra, sono state introdotte per racchiudere regole e limiti in norme giuridiche fondamentali che le maggioranze non possono modificare senza il consenso delle minoranze. Per questa via, la nostra democrazia si qualifica in senso costituzionale come un regime di governo che combina la sovranità popolare con il primato della Costituzione, assicurato da una Corte costituzionale che controlla la conformità delle leggi a essa.
La vita istituzionale del nostro Paese si svolge nel segno dell’equilibrio tra tutti questi elementi: strumenti di democrazia diretta, rappresentanza politica, primato della Costituzione, giustizia costituzionale. Un equilibrio che può essere compromesso da alcune tensioni di fondo.
Occorre rendere la politica rappresentativa quanto più possibile inclusiva rispetto alle istanze dei cittadini e queste ultime quanto più possibile basate su processi deliberativi che le orientino all’interesse comune: questo è il senso di una democrazia deliberativa
In primo luogo, tensioni tra strumenti della democrazia diretta e meccanismi della rappresentanza politica. Questi ultimi sono necessari in grandi comunità, in cui il pieno autogoverno non è praticabile. E sono anche desiderabili, poiché consentono di porre un filtro tra gli interessi privati e le ragioni pubbliche che devono essere perseguite dalle istituzioni. È pur vero, però, che la rappresentanza sottrae ai cittadini opportunità di partecipazione in scelte fondamentali. Se la partecipazione politica è intesa come coinvolgimento diretto dei cittadini in quelle scelte, essa non può esaurirsi nel diritto di eleggere i rappresentanti politici e deve dare accesso a un più ampio spettro di attività: le molteplici forme della mobilitazione politica, le iniziative legislative e, soprattutto, i referendum. Su tutti questi fronti, i cittadini possono dare, in vario modo, il proprio contributo alle politiche pubbliche richiamando l’attenzione su esigenze da soddisfare, indicando obiettivi da perseguire, suggerendo i mezzi per realizzarli.
Se, però, questo contributo punta in direzioni diverse da quella in cui si muovono le istituzioni rappresentative, può diventare arduo soddisfare le istanze di partecipazione dei cittadini senza compromettere le prerogative decisionali dei loro rappresentanti politici, e viceversa. Per tenerle insieme occorre integrarle, rendendo la politica rappresentativa quanto più possibile inclusiva rispetto alle istanze dei cittadini e queste ultime quanto più possibile basate su processi deliberativi che le orientino all’interesse comune. Questo è il senso di una democrazia deliberativa, che chiama rappresentati e rappresentanti a uno scambio di ragioni politiche trasparente e inclusivo, tanto nelle sedi istituzionali quanto in fori informali di confronto e dibattito.
Oggi, gli strumenti informatici e digitali possono favorire questo tipo di deliberazione democratica, moltiplicando le forme di accesso dei cittadini ai circuiti della politica rappresentativa; favorendo lo scambio delle informazioni che istituzioni e cittadini usano per decidere; offrendo ai cittadini nuove opportunità di partecipazione politica e rendendo più accessibili quelle esistenti. Così può avvenire, ad esempio, con l’uso dello Spid nella raccolta delle firme a sostegno delle proposte di referendum: può rendere più semplice per i cittadini dare la propria adesione a quelle proposte e contribuire, così, ai processi decisionali che si svolgono nella sfera pubblica.
In secondo luogo, possono esserci tensioni tra governo democratico e giustizia costituzionale. La Corte costituzionale ha il compito di garantire i diritti dei cittadini e le ragioni delle minoranze, assicurando il primato della Costituzione su tutti gli interventi del legislatore o dei cittadini che possano modificare l’ordinamento in senso contrario a essa. Nel fare ciò, la Corte può contraddire la volontà delle istituzioni legislative che rappresentano i cittadini politicamente, così come può frenare le istanze di partecipazione che i cittadini avanzano attraverso la proposta di leggi e referendum. Quando ciò accade, la giustizia costituzionale entra in attrito con la volontà del legislatore – e la sua portata rappresentativa – così come con la richiesta di autogoverno – di più autogoverno – che proviene dai cittadini.
>> Corrado Caruso e Chiara Valentini presenteranno venerdì 25 febbraio a Bologna la Grammatica del costituzionalismo curata per il Mulino e pubblicata pochi mesi fa. Qui maggiori informazioni
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