Sono esausto. Mi sdraio sul letto a metà mattina come se fosse notte fonda. La fase rem dura all’infinito, cosa che gli scienziati dicono generare, a lungo andare, gravi problemi di salute. Dicono che neanche quando dormiamo il nostro cervello smette di lavorare, e per me è sicuramente così. Cerco disperatamente di identificare un angolo freddo delle lenzuola che lenisca la calura milanese di questi giorni, ma ogni tentativo va a vuoto. Sento un peso nel petto, lo stomaco pieno pur avendo mangiato poco, la testa che scoppia e la cervicale che si indurisce appena apro un’e-mail. Medito su come sarebbe addormentarsi e svegliarsi non il giorno dopo, ma un anno o un decennio dopo, post pandemia e post tutto. Forse sono uno di quegli individui che accumulano inconsciamente energia e si ammalano se non la scaricano in qualche modo. Mentre la mia anima minaccia di esplodere, il mio corpo implode sotto il peso di cupi pensieri. Dicono che non siamo noi a formare il mondo, ma che sia il mondo a formare noi; che non siamo noi a occupare spazio, bensì lo spazio a schiacciare i nostri corpi. Il mio spazio si è ridotto all’osso e con esso il mio respiro.
Leggevo nell’ultimo libro del mio professore e amico Ugo Draetta, Un giurista racconta (Pendragon, 2021), che la depressione può insorgere dal nulla e colpire chi pure sta vivendo momenti di successo professionale e soddisfazione personale. Credo che anche solo pensare che l’insieme di queste mie sensazioni possa costituire l’inizio di una depressione in senso clinico non renda giustizia a coloro che depressi lo sono veramente. Draetta scrive che la depressione è l’effetto della rimozione di «alcuni problemi del proprio passato» che rimangono conservati «comunque dentro di sé collocandoli in angoli riposti del proprio subconscio», e conclude che «chi abbia l’intelligenza, la sicurezza di sé e la capacità necessaria per farlo, [può] da solo ripescare nel proprio subconscio ciò che vi abbia eventualmente riposto». Credo abbia solo in parte ragione e che, dunque, la mia irrequietezza di questi giorni non dipenda dal passato ma dal presente.
Mi ha scosso e insieme commosso la vicenda di Seid Visin, il ragazzo di Nocera Inferiore che si è tolto la vita qualche giorno fa e del quale è rimasta un’accorata lettera di denuncia del razzismo dilagante nel nostro Paese. Sebbene la lettera risalga a qualche anno fa e il padre abbia dichiarato alla stampa che la morte del ventenne non ha a che fare col razzismo, rimane la cruda verità dei j’accuse di Seid e, con essa, l’amaro pensiero che a ucciderlo sia stato quello che la psichiatria chiama minority stress. Si tratta di una serie di complesse dinamiche riconducibili a tre dimensioni principali: l’interiorizzazione del pregiudizio, la percezione del rifiuto sociale (stigma) e l’esperienza vissuta di discriminazione e violenza – ne parla bene Vittorio Lingiardi nel suo libro Citizen gay (Il Saggiatore, 2016) con riguardo alla comunità Lgbt+. Nella lettera di Seid Visin, questi elementi sono tutti presenti. Il razzismo esiste, vivido e tentacolare, e spesso uccide. E qualunque sia la ragione che ha portato il ventenne a quel gesto estremo, non possiamo evitare che le sue parole cadano come pietre sulle nostre coscienze.
Come pesa la storia di Musa (o Moussa) Balde, l’immigrato dalla Guinea suicidatosi nel Cpr di Torino dopo aver subìto un violentissimo pestaggio a Ventimiglia a opera di tre italiani (se ne può leggere qui). Che le due vicende abbiano come denominatore comune il razzismo lo dimostra il fatto che, inserendo su Google l’espressione «immigrato suicida», le prime notizie che compaiono si riferiscono a Visin e non a Balde, circostanza alquanto singolare.
Minority stress è anche la condizione di chi lotta per far passare il disegno di legge contro l’omo-bi-transfobia, la misoginia e l’abilismo, meglio noto come ddl Zan (cfr il testo qui). Oggi più che in passato la comunità Lgbt+ italiana sente e soffre il peso del pregiudizio e dello stigma, vivendo esperienze concrete di discriminazione e violenza (come plasticamente rappresentate da questo monologo del giovane attore Pietro Turano). Come spiegare altrimenti quella sensazione di profonda tristezza mista a rabbia che mi sale ogni volta che leggo i resoconti di Simone Alliva – il bravo giornalista de «L'Espresso» autore di Caccia all’omo (Fandango, 2020) e di Fuori i nomi! (Fandango, 2021) – delle audizioni in Commissione giustizia del Senato in relazione al ddl Zan?
Il vero paradosso delle discussioni che circondano il ddl Zan è che per opporvisi non si trova nulla di meglio che inventare balle colossali che finiscono per alimentare il minority stress delle persone Lgbt+Tali resoconti, sui quali vale la pena di leggere questa cruda sintesi di Giulio Cavalli, dipingono un’ostilità incredibile verso le persone Lgbt+, abilmente e deliberatamente combinata a una serie atroce di bugie e fake news, come il fatto che dietro al ddl Zan vi sarebbero:
- un tentativo di «rassicurare guadagni certi a qualche circuito» (suor Anna Monia Alfieri, che strilla di un attentato a una libertà di espressione che lei ovviamente non manca di esercitare con quella consueta nonchalance che caratterizza certe gerarchie ecclesiastiche quando si parla di diritti civili: «io non li voglio e quindi tu non li puoi avere»);
- la volontà di proteggere i pedofili (l’ex pm Carlo Nordio: dire che la pedofilia sia un «orientamento sessuale» è manifestazione della peggiore ignoranza, l’ignoranza non di chi non ha avuto un’educazione ma di chi ha avuto la fortuna di averla e ha nondimeno deciso coscientemente di farne spazzatura, se non altro perché l’orientamento sessuale compare in svariati testi legislativi italiani ed europei, persino nell’articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea sul divieto di discriminazione – che filo-pedofili questi legislatori, signora mia!) e, non da ultimo,
- il fantomatico «insegnamento del gender nelle scuole» (punto che è stato e sarà sicuramente sviscerato nelle prossime settimane in Commissione, come se parlare di genere, omosessualità e transessualità nelle scuole italiane fosse un male – ma non erano loro i paladini della libertà di espressione? – e come se non esistessero bambini e adolescenti Lgbt+, ancora violentemente schiacciati dal modello assoluto del bambino «con una mamma e un papà», tema del quale parla molto bene Paul Preciado in questo articolo).
Dobbiamo dirlo forte e chiaro: chi blatera di lobby potentissima in relazione al ddl Zan dice una sciocchezza (conoscete forse una lobby, i cui soci vengono pestati per strada e i cui simboli più visibili, come le panchine arcobaleno, vengono sistematicamente e violentemente divelti?); chi parla di pedofilia in relazione all’orientamento sessuale lo fa in totale malafede, ancor peggio se possiede una laurea in giurisprudenza; e chi storpia il significato della celebrazione della giornata internazionale contro l’omofobia, che celebra la liberazione della comunità Lgbt+ dal giogo dell’oppressione arbitraria della scienza medica che li qualificava come malati, pervertiti e deviati, lo fa per impedire quella visibilità delle persone Lgbt+ che costituisce la linfa vitale del loro stesso esistere. Il vero paradosso delle discussioni che circondano il ddl Zan, del quale i lavori della commissione costituiscono una rappresentazione perfetta, è che per opporvisi non si trova nulla di meglio che inventare balle colossali che finiscono per alimentare il minority stress delle persone Lgbt+.
Ma non è tutto. Che dire dei grandi dimenticati del dibattito pubblico sul ddl Zan, cioè le donne e le persone con disabilità, che pure il ddl mira a proteggere e di cui nessuno parla. La quasi totalità degli auditi in Commissione (contro il ddl Zan) non si occupano di donne e/o disabilità, categorie che non a caso soffrono anch’esse, come i gay, le lesbiche e le persone trans, di una sistematica ed esasperante sottorappresentazione nei talk show televisivi, nei media e nella politica. Provate a fare un elenco delle persone trans o disabili quando si parla del ddl Zan in tv senza diventare matti a cercare esempi.
Ogni volta che ingaggiamo una battaglia politica, dobbiamo sempre domandarci per chi o per che cosa combattiamo e chi difendiamo. Per chi o per che cosa si batte la sfilata di imbarazzanti personaggi auditi in Commissione contro il ddl Zan? Chi difendono? Le loro battaglie sono degne di un Paese che si reputa civile? Qual è l’ideale di società di chi avversa una legge a tutela delle persone Lgbt+, delle donne e delle persone con disabilità dalle aggressioni e dalle discriminazioni?
Credo che il ddl Zan, pur con tutti i difetti e le questioni interpretative che al pari di ogni altra norma giuridica lo caratterizzano rappresenti un passo avanti nella riduzione di quel minority stress che ancora opprime alcuni segmenti della nostra società. Ma c’è di più. Come afferma Maya De Leo nel suo libro Queer. Storia della comunità Lgbt+ (Einaudi, 2021) (da leggere assolutamente!), la lotta delle persone Lgbt+ per il riconoscimento delle proprie identità e la rivendicazione di uno spazio pubblico ci impone di ripensare le categorie classiche della «razza», della classe, del genere e dell’abilità fisica, che vengono così a costituire le chiavi, scrive, per «ripensare lo stesso “concetto” di umanità, ovvero assumere una prospettiva decentrata per indagare come sia stato costruito il concetto di “umano” e soprattutto quali nuovi tipo di corpi siano in costruzione in questo momento storico, ovvero quali inediti processi di soggettivizzazione e quali nuovi rapporti di dominazione si stiano configurando nel presente».
Quello che è in gioco con il ddl Zan è dunque il concetto stesso di umanità, ma non nel senso che vorrebbero gli oppositori, che in mala fede concepiscono come deviante tutto ciò che mette in discussione il binarismo di genere, la complementarità dei sessi e il controllo politico sul corpoQuello che è in gioco con il ddl Zan è dunque il concetto stesso di umanità, ma non nel senso che vorrebbero gli oppositori della legge, i quali in mala fede concepiscono come deviante tutto ciò che mette in discussione il binarismo di genere, la complementarità dei sessi e il controllo politico sul corpo, ma in un senso precisamente opposto. Nel senso, cioè, di volere i nostri corpi liberi dall’oppressione del minority stress in modo da poter affermarne la dignità – quella sulla quale il compianto Stefano Rodotà ha scritto a fiumi nel suo Il diritto di avere diritti (Laterza 2012) «non a prescindere dalla condizione personale dell’individuo», con un appiattimento su un modello universale di cittadino, «bensì proprio in virtù di tale condizione», rendendo – come scrive Luigi Ferrajoli «ogni individuo è una persona come tutte le altre e ogni persona un individuo diverso dagli altri».
Possiamo forse immaginare un’umanità senza le persone Lgbt+, senza donne e senza persone con disabilità? Provateci. E vedrete che, come scrive Ursula Le Guin, «solo immaginando l’impossibile sarà possibile trasformare l’inaccettabile».
Appoggio la testa sul cuscino, chiudo gli occhi e provo a immaginare una società italiana più umana.
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