Tanto tuonò che alla fine (non) piovve: il progetto della Superlega, messo in agenda da circa un decennio, è stato prima presentato con grandi squilli di tromba e poi precipitosamente ritirato. Quali che siano le ragioni di ordine economico alla base del progetto (presumiamo ottime, per un calcio sempre più indebitato, anche a causa della pandemia) e quali che siano le ragioni che lo hanno affossato (sarebbe bello credere, ma ne dubitiamo, per l’indignazione popolare che è montata), la vicenda può essere l’occasione per discutere della bontà sportiva della scissione – ché di questo si tratta – che dodici delle quindici squadre europee economicamente più forti sono state in procinto di fare e che probabilmente hanno soltanto rimandato a un futuro più o meno prossimo, magari con quella unanimità che stavolta è mancata (Bayern Monaco, Paris St. Germain e Borussia Dortmund si erano sfilate da subito).
Per farlo, occorre partire dalla situazione attuale, e cioè descrivere brevemente come funziona oggi il sistema che lega assieme i campionati nazionali e la Champions League. Al trofeo che mette di fronte l'élite del calcio europeo (che, per come funziona il calcio odierno, è anche l’élite mondiale) oggi si accede in virtù del piazzamento ottenuto nel proprio campionato nazionale e del numero di posti che ciascuna federazione riceve in ragione del proprio ranking Uefa; i campionati con un ranking migliore (tra cui l’Italia) schierano al via quattro compagini, gli altri un numero inferiore (da tre a una).
Va aggiunto inoltre che l'accesso alla fase autunnale a gironi, il momento cioè in cui l’«affare» diventa veramente redditizio, avviene direttamente per 26 compagini, mentre i sei posti rimanenti dei 32 complessivi sono assegnati alle squadre provenienti dalle fasi preliminari, che iniziano a luglio; alla fase successiva, a eliminazione diretta con partite di andata e ritorno, si qualificano poi due squadre per ciascuno degli otto gironi, e da lì si avvia un percorso che, dalla fine dell’inverno alla tarda primavera, conduce all’assegnazione del trofeo.
Questo modello è un'evoluzione rispetto alla vecchia Coppa dei Campioni, quella che fu fondata nel 1955 e che con qualche ritocco regolamentare rimase in funzione, anche dopo il cambio di nome in Champions League, sin quasi alla fine del ventesimo secolo; il format precedente prevedeva infatti la partecipazione soltanto delle squadre vincitrici del proprio campionato nazionale, oltre alla detentrice del trofeo. L’allargamento del novero delle partecipanti non ha tuttavia intaccato il principio per cui l'accesso alla maggiore competizione europea per club è subordinato alle posizioni di classifica nel campionato nazionale dell’anno precedente; le uniche eccezioni sono la vincitrice della Champions League e la vincitrice dell'altro torneo Uefa, l’Europa League, alle quali pure spetta di diritto un posto nella fase a gironi, ma che comunque quel posto se lo conquistano «sul campo».
Si tratta di un sistema che non distribuisce le opportunità alle squadre in maniera eguale, poiché è palese che i successi calcistici sono strettamente correlati al potere economico
Si tratta di un sistema che chiaramente non distribuisce le opportunità in maniera eguale e che è ben lungi dall’incarnare il calcio «pane e salame» di una volta. È infatti di tutta evidenza che un torneo che muove circa 2,5 miliardi di euro non può non essere considerato un business ed è altrettanto palese che i successi calcistici sono strettamente correlati al potere economico: le squadre che ottengono i risultati migliori, in patria e fuori, sono quelle con una maggior disponibilità finanziaria, secondo peraltro un circolo vizioso da «effetto san Matteo», per cui i soldi portano i risultati, i risultati altri soldi, altri soldi altri risultati, e così via; il che produce un divario crescente tra le varie federazioni e tra i vari club, nessuno dei quali è naturalmente «povero» in senso assoluto, ma lo è, o lo diventa, in senso relativo, rispetto cioè alle società più ricche.
Da questo punto di vista, è palese che la biodiversità calcistica si sia da tempo ridotta e anche di molto: basta andare a vedere gli albi d'oro dei campionati nazionali, ma anche che cosa succede in Champions League, dove, a mero titolo di esempio, soltanto una volta nel ventesimo secolo una squadra non appartenente alle fondatrici della Superlega ha vinto la coppa e soltanto altre due volte vi sono state finaliste estranee a questo circolo ristretto. Sicché, in definitiva, insistere ad argomentare contro la Superlega spendendo retoriche pauperistiche e nostalgiche, come è accaduto in questa improvvisa «guerra dei due giorni» del calcio europeo, non coglie il bersaglio e anzi espone ad accuse di ipocrisia e malafede. Occorre, credo, impostare diversamente il discorso, rinunciando a utilizzare l’argomento economico come briscola e inserendolo casomai in un ragionamento più ampio.
Nonostante le sue criticità, il sistema attuale ha un grosso pregio: tutto è basato su quanto viene realizzato sul campo. Anche se nella fase a gironi ventisei caselle, come abbiamo visto, sono assegnate secondo una classifica di federazioni, la classifica delle federazioni può essere sovvertita dai risultati e in ogni caso a nessuna delle partecipanti, quale che sia la federazione di appartenenza, è preclusa la possibilità di arrivare alla fase a gironi, e magari oltre; né, per converso, a nessuna squadra, non importa la sua ricchezza o il suo blasone, è garantita la partecipazione alla competizione, se non è stata in grado di conquistarla sul campo.
Nonostante le criticità, il sistema attuale ha un grande pregio, cioè quello di basarsi su quanto viene realizzato sul campo, mentre con la Superlega questo non accadrebbe più
Con la Superlega questo non accadrebbe più. La Superlega stabilisce infatti per le fondatrici un diritto permanente di partecipare al campionato della Superlega, assieme ad altre cinque che saranno scelte di volta in volta sulla base di un qualche criterio al momento non definito (ma comunque sotto il controllo dei fondatori). La strada è quella tracciata nel 2001 dall’Eurolega di basket, in cui il diritto d'accesso non è funzione dei risultati del campo, bensì di un atto fondativo tra pari: questo, sul piano sportivo, è un problema a prescindere dal fatto che il loro essere pari, così come il loro essere dispari rispetto a tutte le altre rivali, è tale in ragione della forza economica di cui dispongono.
Infatti, anche se alle squadre della Superlega fosse permesso di continuare a giocare nei campionati nazionali (ma per verità la Federazione italiana si è già mossa in senso opposto) e non si andasse così verso un modello come è quello della Nba del basket statunitense (che è chiusa, in ingresso e in uscita), l’esito di questi campionati non avrebbe conseguenze sulla partecipazione alla Superlega, poiché tale partecipazione sarebbe il risultato non di un percorso sportivo, bensì dell’atto fondativo di cui parlavo prima, o – nel caso delle cinque wild card – della concessione dei fondatori; i quali fondatori, peraltro, nemmeno correrebbero mai il rischio che un’annata disgraziata nel proprio campionato (tutte le squadre ce l’hanno, inevitabilmente) faccia loro pagare il prezzo di una mancata partecipazione alla competizione più importante nella stagione successiva.
Allo stesso tempo, le squadre che partecipano alla Superlega non parteciperebbero più alla competizione al momento più importante, la Champions League. È qui che uno spazio per l’argomento economico può essere recuperato: se le squadre della Superlega sono quelle economicamente più forti e dunque quelle che, prevedibilmente, attrarrebbero i calciatori migliori, la conseguenza sarebbe che la Superlega diventerebbe la competizione più prestigiosa e la Champions la figlia di un dio minore. Si dirà: be’, ma in fondo è una semplice sostituzione di una competizione sportiva con un’altra, perché farla così lunga? No, la Superlega non sarebbe un’altra competizione, ma una competizione altra: l’accesso sarebbe infatti determinato, come abbiamo visto, da criteri altri e diversi rispetto a quelli definiti da un felice percorso sportivo.
Possiamo anche provare a speculare se e quanto la Superlega sarebbe un torneo che appassiona i tifosi o se invece apparecchia un banchetto troppo lauto per essere gustato davvero; questo probabilmente dipende da quanto avvincente riuscirebbe a essere, il che verosimilmente sarebbe conseguenza dell’equilibrio che regnerebbe, o meno, nelle partite singole e nella competizione nel suo complesso. Possiamo comunque concedere che la Superlega si riveli altamente spettacolare e possa avere grande successo (l’Eurolega di basket, mi dicono, è un torneo bellissimo); in ogni caso, non sarebbe questo il punto. Il punto dirimente consisterebbe nella diversa natura della competizione, che non consentirebbe più di determinare la squadra più forte d’Europa, ma solamente la squadra più forte tra quelle che hanno avuto, in ragione non del merito ma del privilegio, la possibilità di misurarsi tra loro.
Il sistema attuale ha, come abbiamo osservato, dei limiti e questi limiti potrebbe acuirsi con la riforma 2024-2025, se pensiamo che essa prevede, tra l’altro, l’introduzione per la fase a gironi di un meccanismo di ripescaggio per due squadre eliminate nei preliminari, ma con un elevato coefficiente Uefa, una sorta di ciambella di salvataggio per le squadre di medio profilo. Tuttavia, esso continuerà a premiare i risultati del campo e a realizzare così il senso profondo dello sport: un luogo dove i potenti non hanno la vittoria garantita e i deboli non partono sconfitti, dove il merito va continuamente dimostrato e non presupposto. Fondare la Superlega significherebbe porsi in urto frontale con questa visione, preferendo al rischio di un’aperta competizione la comodità di un’arena elitaria ad accesso ristretto, in cui soltanto alcuni potranno salire sul palco, per cantarsela e suonarsela da soli.
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