Sul numero 1/2015 del «Mulino» ho avuto occasione di scrivere qualche riga a proposito del recente volume di Brendan Simms dedicato alla contesa per la supremazia in Europa dal XV secolo a oggi. È un libro non privo di difetti, ma che ha il grande merito di richiamare l’attenzione del lettore su alcuni concetti classici della politica internazionale e della storiografia politico-militare che ha fra i suoi antecessori Tucidide e Machiavelli.

È quanto mai opportuno, credo, tornare a leggere il mondo anche come conflitto di potenze e la politica internazionale come ricerca di equilibri: nel mondo post-ideologico e multipolare attuale, questo tipo di analisi sembrano aver ceduto il passo  ad altro tipo di considerazioni (specialmente di carattere etico o «umanitario») e perfino lo strumento militare è tenuto il più possibile nell’ombra dalle cosiddette democrazie occidentali, timorose di perdere il consenso dei propri elettori: come ha osservato di recente il generale Mini, «le guerre non scoppiano più» («Limes», n. 1/2015), almeno dall’epoca delle Falkland. 

Eppure i conflitti latenti sono innumerevoli così come numerose sono le ragioni di allarme, in particolare (anche se non solo) in Europa. La dissoluzione dell’Urss ha posto fine all’equilibrio assicurato dalla dottrina «Mad» (mutual assured distruction) e ciò rappresenta un pericolo per tutti noi nel momento in cui classi dirigenti ormai prive di esperienza bellica, refrattarie alla dottrina del balance of power governano Stati che continuano ad essere dotati di un immenso potere militare, anche nucleare: penso in particolare alla fallimentare politica estera di Obama, caratterizzata dal disimpegno in Medioriente, ormai precipitato definitivamente nel caos, a favore di una doppia politica di contenimento delle potenze «orientali», la Cina nel Pacifico e la Russia in Europa.

La Russia odierna è molto cambiata. Vladimir Putin ha finalizzato la sua azione all’obiettivo di riportare il proprio Paese a giocare un ruolo da attore di primo piano sullo scenario internazionale

Quando la Jugoslavia si sgretolò, il conflitto rimase contenuto anche perché la Russia, ridotta in ginocchio, era ancora nelle mani di Eltsin: anche se non mancarono le avvisaglie di un possibile conflitto, quando durante la guerra del Kosovo le forze di pace russe di stanza in Bosnia varcarono il confine per occupare l’aeroporto di Pristina e impedire che forze inglesi e americane se ne impadronissero (l’incidente di Pristina si verificò il 12 giugno 1999). La Russia odierna è molto cambiata da quegli anni. Vladimir Putin ha finalizzato la sua azione all’obiettivo di riportare il proprio Paese a giocare un ruolo da attore di primo piano sullo scenario internazionale.

Per raggiungere questo obiettivo egli ha lavorato molto anche sulla società russa e sull’auto-rappresentazione del Paese, con un evidente recupero di continuità con il passato sovietico, che se pure non è ricordato necessariamente come un periodo di floridezza economica, è quasi unanimemente ricordato in Russia come un periodo di potenza, di forza, di grandezza. L’opinione di Putin al riguardo è nota: «Chi vuole restaurare il comunismo è senza cervello. Chi non lo rimpiange è senza cuore». Ne è derivato una sorta di bonapartismo russo grazie al quale è stato possibile sdoganare perfino la figura di Stalin, quale comandante in capo durante la «grande guerra patriottica»: non vi è nessuno in Russia che non sappia cantare le canzoni e le marce di quegli anni, a qualsiasi ceto sociale appartenga. Anni fa ero a Mosca il giorno di celebrazione della vittoria (9 maggio): l’impressione – non solo della parata militare, ma anche della gigantesca festa popolare – fu forte. Poco tempo fa la parata sulla Piazza Rossa si è ripetuta con un dispiegamento di forze mai visto dall’epoca dell’Urss, e con l’usuale coreografia che mescola simbologie imperiali e sovietiche. Se ne può vedere l’intero svolgimento a questo indirizzo: credo che sia una visione alquanto istruttiva, anche per via delle delegazioni di militari stranieri che hanno partecipato. Serbia, India, Cina, Bielorussia, Kazakistan e altre Repubbliche ex sovietiche. Per la prima volta, peraltro, la bandiera della vittoria (quella issata a suo tempo sul Reichstag) ha preceduto quella nazionale: un fatto non privo di significato.

La Russia mostra i muscoli, dunque, e non è affatto strano. La progressiva avanzata di Ue e Nato verso i suoi confini occidentali è percepita come una minaccia che, da alcuni anni a questa parte, la Russia ha fatto chiaramente capire di voler combattere. Prima con il conflitto in Georgia, poi con l’annessione della Crimea e la guerra che prosegue nel Donbass. Putin, e la dirigenza russa in generale, non sono disposti a vedere ulteriormente compressa la propria sfera d’influenza. D’altra parte, in molti stati dell’ex Urss o dell’ex Patto di Varsavia, il sentimento antirusso è viscerale: basti pensare a Ucraina, Repubbliche Baltiche – specialmente l’Estonia, e anche alla Polonia. Un sentimento che, non a caso, si è tradotto nella distruzione di monumenti e dell’iconografia di era sovietica, e talvolta nella spudorata riabilitazione dei propri trascorsi al fianco del Terzo Reich. È un fatto pericoloso, poiché in alcuni di questi paesi esistono minoranze russofone, la cui eventuale discriminazione potrebbe alimentare ulteriormente la tensione.

La progressiva avanzata di Ue e Nato verso i suoi confini occidentali è percepita come una minaccia che, da alcuni anni a questa parte, la Russia ha fatto chiaramente capire di voler combattere

Il quadro geopolitico, poi, è reso ulteriormente complicato dalla presenza dell’enclave russa di Kaliningrad e dalla questione della Transdnistria, una Repubblica indipendente non riconosciuta fra Moldavia e Ucraina, dove sono presenti basi e militari russi. Nel suo complesso, l’Europa è stata relativamente cauta – anche per ragioni economiche – nel seguire l’atteggiamento aggressivo di Stati Uniti e Regno Unito dopo le recenti vicende ucraine.  Questo è un bene e sarebbe opportuno che si fosse ancora più cauti: ormai gli interessi di molti Paesi europei non coincidono con quelli di Washington e Londra. Inoltre, il quadro continentale si sta frammentando: alcuni Paesi orientali membri di Ue e Nato sono legati a doppio filo agli Stati Uniti.  Altri, fra i quali Germania, Francia, la stessa Italia, non ne condividono necessariamente l’orientamento. Da ultimo, la vicenda greca: essa può costituire un ulteriore fattore di instabilità, avvicinando uno dei principali Paesi dei Balcani proprio alle potenze orientali, mostrando al mondo la fragilità strutturale dell’esperimento di unificazione europea.

A pochi decenni dalla fine dell’Urss le antiche dinamiche di potenza nel continente sembrano riprendere forza: sarà bene che ci si renda conto di ciò e che si faccia tesoro dalle lezioni del passato, prima che qualche governante avventato si spinga troppo oltre. Gli strumenti per la mutua distruzione assicurata, sono ancora al loro posto: una buona ragione per studiare con cura la storia del nostro continente.