Il rialzo di 75 punti base del tasso di sconto da parte della Banca centrale europea (Bce), deciso al Consiglio direttivo dell’8 settembre, era un segnale atteso dai mercati. Senza precedenti, ma atteso. Non a caso, dopo l’immediata e fisiologica discesa dei corsi azionari, i titoli europei hanno ripreso vigore, con rimbalzi significativi. Segno che l’aumento era già stato incorporato nelle aspettative degli operatori. D’altronde, la Bce è storicamente una banca centrale giovane, che deriva la propria credibilità dalla storia della Bundesbank nel gestire l’inflazione. Era facile prevedere che di fronte a un’inflazione vicina alle due cifre avrebbe reagito pesantemente. Il problema è capire se la manovra possa rivelarsi efficace e a quale prezzo.
In questi vent’anni di vita, la Bce ha attraversato almeno due fasi. La prima, nella quale ha spinto fino alle estreme conseguenze l’inflation targeting, ossia il mantenere il tasso d’inflazione prossimo ma inferiore all’obiettivo del 2%. In un contesto nel quale il tasso risultava sistematicamente (fino al 2008 compreso) superiore (anche se di poco) a quel dato, Duisenberg e Trichet hanno avuto gioco facile a seguire l’ortodossia, ostentando una politica monetaria restrittiva.
Con la crisi finanziaria derivante dallo scoppio della bolla sui mutui sub-prime negli Stati Uniti e il conseguente credit crunch globale, il tasso d’inflazione è sceso per due anni (2009 e 2010) sotto l’obiettivo del 2%; per poi risalire nel 2011 e nel 2012. Il crollo dei dati sull’inflazione a seguito dell’inasprirsi della crisi dei debiti sovrani nell’area dell’euro a partire dal 2013 ha spianato la strada al quantitative easing dell’era Draghi.
L’impennata dei prezzi dell’energia spiega in gran parte l’inflazione attuale, vicina alle due cifre, accompagnata da manovre speculative sugli stoccaggi e da meccanismi perversi di formazione dei prezzi
Solo nel 2021 il tasso ufficiale annuo tornava sopra al 2% (per la precisione al 2,59%) grazie al Programma di acquisto per l’emergenza pandemica (Peep), al Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) ed alla ripresa dell’attività economica dopo i mesi di lockdown (ma anche all’accorciamento delle catene del valore, che impattano sui costi di approvvigionamento). L’impennata dei prezzi dell’energia che già si era registrata a partire da settembre 2021 e il conflitto in Ucraina, con la weaponization di gas, petrolio e carbone russi, spiega in gran parte l’inflazione attuale, vicina alle due cifre, accompagnata da manovre speculative sugli stoccaggi e da meccanismi perversi di formazione dei prezzi dell’energia in Europa.
Un’altra parte dell’aumento è dovuta all’accorciamento sempre più strutturale di quelle catene globali del valore che si avviano a diventare sempre meno globali, e da un atteggiamento speculativo di tutta la filiera della distribuzione (vendite all’ingrosso e al consumo) che nel rialzo generalizzato dei prezzi hanno colto l’occasione per difendere i margini di profitto.
Dal punto di vista strettamente tecnico, il rialzo della Bce è perfettamente comprensibile. Una manovra “da manuale”, si potrebbe dire. Il problema è il canale di trasmissione attraverso il quale la manovra restrittiva impatta sull’inflazione. E qui cominciano i problemi.
Alzare il tasso di sconto diminuisce il ricorso all’indebitamento bancario per l’acquisto di asset immobiliari (obiettivamente aumentato, anche grazie all’aumento del risparmio dell’ultimo biennio), calmierandone i prezzi. Ma diminuisce anche il paniere di consumo delle famiglie. Scoraggia gli investimenti; o meglio richiede, per stabilizzare o aumentare gli investimenti, che le aspettative future degli imprenditori siano eccezionalmente positive (cosa della quale è lecito dubitare). Scoraggia le esportazioni perché in un mondo caratterizzato da capitali fortemente mobili il rialzo del tasso d’interesse nell’area-euro fa apprezzare il suo tasso di cambio sui mercati, rendendo i nostri beni e servizi meno competitivi sul piano globale. Inoltre, il rialzo dei tassi diminuisce il vantaggio dell’inflazione sul debito pubblico (che ne riduce il peso reale).
Il rischio, in sintesi, è che per tentare di smorzare un’inflazione che deriva in gran parte da strozzature e manovre speculative sul lato dell’offerta si finisca per diminuire le componenti più sane (investimenti ed esportazioni) e socialmente sensibili (consumi) della domanda, determinando una stagflazione, ossia la contemporanea presenza di inflazione e recessione/disoccupazione. Oltre che aggravare i divari nelle posizioni finanziarie dei vari Paesi. La manovra insomma rischia di aumentare le differenze di performance ed acuire un’esposizione finanziaria asimmetrica fra i Paesi europei, mettendo ancora più sotto i riflettori l’uso (discrezionale) che la Bce si riserva di fare dello strumento anti-spread: il Tpi (Transmission Protection Instrument), il piano anti-spread della Bce.
Il giudizio sulla manovra restrittiva di politica monetaria dovrebbe dunque essere negativo? Dipende. Il tratto caratteristico dell’economia mondiale degli ultimi decenni è l’aumento esponenziale dell’interdipendenza globale, come credo sia evidente a tutti da almeno due anni. L’invasione russa in Ucraina ha spezzato gli equilibri attraverso i quali quella interdipendenza veniva governata (più o meno) pacificamente attraverso il commercio internazionale e l’egemonia Usa (peraltro sempre meno credibile negli ultimi quindici anni); ma non ha fatto certo scomparire l’interdipendenza.
Anzi, ha accresciuto l’interdipendenza fra i Paesi europei, nonostante esposizioni finanziarie e dipendenze energetiche diverse che spingono verso retoriche di risposte nazional-nazionaliste di politica economica. Mai come oggi sarebbe necessario che l’Europa fosse coesa, in un mondo nel quale gli equilibri di potere vengono messi in discussione, le alleanze strategiche evolvono, e solo soggetti di dimensione continentale possono sperare di guidare, piuttosto che subire, le dinamiche dei cambiamenti in atto.
È in questa logica più ampia che andrebbe letta la politica monetaria; fino ad oggi lasciata sola ad affrontare le principali crisi reali dell’economia europea. Ricordate cosa disse Lagarde nel marzo 2020, quando decise l’avvio del Pepp? Che la politica monetaria doveva essere accompagnata da una corrispondente azione sinergica da parte della politica fiscale, sia a livello nazionale sia a livello europeo. Da qui: la sospensione del Patto di Stabilità e Crescita e della normativa sugli aiuti di Stato, gli scostamenti di bilancio, il Next Generation Eu. Da qui anche quell’ipotesi di nuova politica industriale europea da affiancare, sempre sinergicamente, a quelle nazionali. Con i primi vagiti di una discussione sull’industria bellica, sui microprocessori, sulla gestione della transizione ecologica ecc.
Se oltre a una Banca centrale vi fosse un Tesoro europeo in grado di decidere con una politica fiscale fortemente espansiva, la politica restrittiva della Bce acquisirebbe maggiore senso
Paradossalmente, proprio quando sarebbe stato necessario spingere avanti con decisione quei primi tentativi di creazione stabile di una politica fiscale e industriale europea, il conflitto in Ucraina ha messo allo scoperto per l’ennesima volta le debolezze di un’Unione disunita; che le decisioni all’unanimità rendono incapace di agire, o quantomeno di reagire prontamente alle sfide esterne.
Se oltre a una Banca centrale che si occupa di stabilizzare le aspettative sui prezzi, vi fosse un Tesoro europeo in grado di decidere reattivamente, come ha fatto il Tesoro statunitense, con una politica fiscale fortemente espansiva, possibilmente orientata alla costruzione di una più stabile struttura industriale europea, nella quale oltre a tutelare la concorrenza sul mercato interno si pensasse anche ad assicurare la competitività della nostra industria nel mercato globale… anche la politica restrittiva della Bce acquisirebbe maggiore senso. E potrebbe essere accompagnata da minore ansia fra le famiglie e le imprese europee, soprattutto in vista di possibili ulteriori manovre restrittive, se i dati sull’inflazione, il prevalere dei falchi del rigore e ulteriori rialzi dei tassi da parte della Fed li rendessero difficilmente evitabili.
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