La decisione presa dal presidente Trump il 18 dicembre scorso di ritirare le 2.000 truppe regolari statunitensi dal Nord Est della Siria ha provocato una tempesta politica: negli Stati Uniti, con le dimissioni del pluridecorato segretario alla Difesa James Mattis, e dell’inviato Usa per la coalizione internazionale contro l’Organizzazione dello Stato islamico (Is) Brett McGurk; in Europa, dove si critica l’unilateralismo di Washington e il presidente francese Emmanuel Macron che deve gestire il contingente militare di circa un migliaio di uomini che diventa ora quello più numeroso, ma senza la copertura politica e logistica della superpotenza; in Medioriente, dove, eccezione fatta per la Turchia, gli alleati israeliani e sauditi pianificano nuovi interventi autonomi in Siria contro la presenza iraniana, mentre Teheran, Damasco e Mosca si dimostrano cautamente soddisfatti.
La decisione nasce, anzitutto, da ragioni di politica interna statunitense, che si traducono nell’ennesimo atto unilaterale di Washington: di fronte ai problemi politici che la presidenza Trump deve affrontare da qui alle prossime elezioni, riportare a casa le truppe come promesso nella campagna del 2016 dovrebbe pagare. Con tempismo pari alla sua spregiudicatezza, nella telefonata del 14 dicembre, il presidente turco Erdogan promette a Trump di assestare il colpo finale all'Is, quando in realtà il suo obiettivo è l’eliminazione militare delle forze curde-siriane e del loro progetto politico della Rojava. A ulteriore soddisfazione del presidente Trump, Erdogan prenota oltre 80 missili Usa Patriot ipotecando, de facto, l’acquisto del sistema di difesa russo S-400 che tanto ha preoccupato la Nato.
L’organizzazione dello Stato islamico in quanto forza politica è stata sconfitta nel suo progetto territoriale e statuale in Iraq e Siria, ma si sta riorganizzando come movimento di guerriglia, in realtà soprattutto in Iraq, facendo sempre leva sul risentimento di quei settori della popolazione araba, musulmano sunnita, ancora oggi marginalizzati dopo l’invasione Usa del 2003. Per quanto riguarda la Siria, è giusto ritenere che le ultime resistenze possano essere sconfitte sia dalle forze curdo-arabe con il sostegno Nato ma egualmente da quelle siriano-iraniane e russe già presenti in massa a ridosso del fiume Eufrate. Più dubbia è invece la capacità, e volontà, della Turchia, data la sua cooperazione precedente con Is e altri gruppi jihadisti; Ankara necessita anche che prima si ritirino le truppe francesi e britanniche in loco e, soprattutto, di sconfiggere le forze curde.
Fattore determinante del supposto “vuoto di potere” o “free-for-all”, cioè chi controllerà il Nord Est della Siria, è la possibilità che Damasco e il Pyd curdo chiudano a breve il negoziato in corso da mesi per rientrare nel contesto istituzionale e politico della Siria e dunque scongiurare l’invasione della Turchia. Per quanto siano limitate ora, le speranze di sopravvivenza delle forze della Rojava rimangono comunque maggiori con Damasco, e i suoi alleati russi e iraniani, che non sotto i nazionalisti-islamisti turchi di Erdogan.
La situazione politica in Siria rimane complessa e difficile da decifrare e il ritiro militare statunitense non è determinante per porre fine al conflitto, ma, quantomeno, elimina un fattore che rischiava di diventare un ulteriore ostacolo alla sua risoluzione. Le motivazioni di questa scelta, le sue conseguenze e il dibattito internazionale possono essere valutati adeguatamente alla luce di alcune semplici considerazioni di più ampio respiro.
In primo luogo, gli Usa non hanno mai avuto un interesse strategico per la Siria, fin dalla sua indipendenza nel 1946. Dunque, ogni intervento di Washington nel Paese mediorientale è sempre stato strumentale alla difesa dei propri alleati e interessi situati nei Paesi circostanti (Israele e Giordania a Sud, Turchia a Nord, Iraq post-2003 a Est). L’assenza politica ed economica degli Stati Uniti in Siria è sia fonte che causa della povertà di conoscenza e dell’incapacità di comprensione del Paese, per cui la decisione di Trump è sostanzialmente corretta e coerente nel limitare un intervento che fin dall’inizio aveva obiettivi e forze limitate, perché tattico e non strategico. Il tentativo, trasversale alle forze politiche, di estenderne la portata col motivo di bloccare la penetrazione iraniana e russa in Siria e costringere il governo di Damasco al negoziato sono tutte ragioni che rischiano di trasformare a tempo indeterminato l’attuale presenza, senza peraltro avere grandi prospettive di successo nel medio periodo. Il progetto di trasformare la Rojava a guida curda in un punto d’appoggio statunitense nella regione in modo simile a quanto fatto nel Nord dell’Iraq con il clan dei Barzani a Erbil è difficilmente replicabile. Anzitutto, per quanto indebolito, lo Stato e il governo siriano sono più forti e determinati di quello iracheno nel ricostruire l’unità territoriale del Paese con il sostegno costante dei due alleati iraniani e russi. L’autonomia curda, legittima e auspicabile, non potrà che avvenire all’interno del quadro istituzionale siriano, pena la guerra infinita. In secondo luogo, è la formazione marxista-leninista e più recentemente ecologista e democratico-radicale delle forze curdo siriane (come quelle curdo-turche del Pkk) a essere incompatibile con le politiche e le alleanze conservatrici da sempre sostenute nella regione da Washington. L’alleanza era tattica e tattica rimane fino alla fine. In terzo luogo, ogniqualvolta sia possibile, gli Stati e i loro governi preferiscono negoziare e accordarsi con i loro simili piuttosto che con movimenti sub o trans-nazionali: questo è quanto accaduto a scapito delle forze curde dalla fine dell’impero ottomano in poi, negli anni Venti del XX secolo, e più recentemente in Siria a opera di Turchia e Russia con l’occupazione turca del “cantone” siriano di Afrin nel marzo 2018 e forse ora con il resto della Rojava.
Da ultimo, ma non per importanza, la trasformazione della Siria, o parti di essa, in un avamposto filo-occidentale è minata dalla costituzione sociale e politica di questi stessi territori. Il pluralismo sociale e politico della Siria è generalmente caratterizzato da un profondo e radicato principio di autonomia che, prima e durante il regime del Ba’th siriano e della famiglia al Assad, si è tradotto in un sistema di relazioni internazionali molto diversificato: radicamento “esistenziale” nel cuore del mondo arabo e mediorientale, alleanza internazionale con l’Unione sovietica prima, Russia e Cina oggi, stretti legami economici e culturali con l’Europa occidentale, ora Unione europea. Ogni forza politica e sociale trovava il suo sbocco preferenziale, sebbene sotto un ordine gerarchico e autoritario ben definito. Ogni tentativo di appiattire le relazioni internazionali della Siria su un unico, esclusivo “campo” si è scontrato con la resistenza attiva e passiva del resto della società siriana e dei loro alleati, in una sorta di equilibrio di potenza e alleanze contro-egemoniche che su scala nazionale riproducono quelli regionali del Medioriente e Nord Africa. Oltri otto anni di guerra avrebbero dovuto dimostrarlo, anche a chi non ha memoria storica o continua a sostenere interventi militari in virtù di un imperialismo che si vuole umanitario e democratico.
Decisioni corrette possono avere tempistiche inadeguate o motivazioni odiose. Sta a chi ha a cuore i destini di queste popolazioni, e dunque della fine della guerra, approfittarne e farne tesoro per riportare il conflitto sul piano istituzionale e politico.
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