Le azioni terroristiche verificatesi in molti Paesi europei finora hanno fortunatamente risparmiato l’Italia, anche se non sono mancate esplicite minacce di attentati alla città di Roma dalle forti valenze simboliche. Alcune ipotesi sono state formulate per spiegare questo stato di cose. La prima afferma che l’Italia, molto probabilmente, costituisce un’importante base logistica di transito verso l’Europa dei militanti dell’Isis che alimenta anche un notevole introito finanziario per l’Isis stessa, legato al traffico di migranti tra Libia e Italia. Dunque, secondo questa tesi, converrebbe all’Isis escludere atti terroristici in Italia per operare in condizioni di relativa tranquillità. La seconda ipotesi sottolinea l’efficacia delle misure antiterroristiche adottate in Italia, grazie all’uso più esteso, se paragonato agli altri Paesi europei, delle espulsioni in via amministrativa di soggetti stranieri sospettati di terrorismo. La terza ipotesi, infine, pone l’accento sulla scarsa presenza in Italia, rispetto ad altre esperienze europee, di aree urbane e suburbane degradate e a forte concentrazione islamica che possono favorire l’adesione al jihadismo. Si tratta, evidentemente, di valutazioni molto approssimative che non devono assolutamente farci abbassare la guardia riguardo al rischio attentati in Italia. Anche l’utile discussione sullo scarto esistente tra insicurezza reale e insicurezza percepita dai cittadini non deve portare, come spesso avviene, a trascurare l’analisi dei fattori di insicurezza realmente esistenti. È necessario, dunque, riflettere attentamente sui problemi relativi alla prevenzione e al contenimento dei potenziali danni provocati dall’azione terroristica, non limitandosi a criticare i provvedimenti emergenziali adottati dal governo, bensì sforzandosi di fornire anche delle proposte operative.
Partiamo dalla prevenzione. È opportuno chiedersi quanto possano esserci di aiuto le riflessioni elaborate dalle scienze sociali sui disastri naturali e su quelli inintenzionalmente procurati dall’azione umana nelle organizzazioni cosiddette «ad alta affidabilità» (squadre antincendi, operazioni di volo nelle portaerei, gestione di impianti nucleari e di materiali pericolosi ecc.). Sul piano della prevenzione, la difficoltà di fondo, nel rispondere a questa domanda, è data dal fatto che l’elemento intenzionale insito nell’azione terroristica introduce il problema della manipolazione della comunicazione e della menzogna assente, invece, negli altri tipi di disastri. In queste circostanze complesse, la corretta interpretazione delle intenzioni dei terroristi diventa cruciale. Bisogna saper decodificare i segnali raccolti (su fonti aperte, sui social media, nel dark e deep web, nelle intercettazioni telefoniche e ambientali) ed essere in grado di potenziare le informazioni, spesso cruciali, fornite da cittadini, agenti infiltrati, terroristi pentiti o arrestati. A questo proposito, disponiamo certamente di utili conoscenze accumulate sugli attacchi di sorpresa in ambito militare e sul terrorismo di ispirazione anarchica e politica (di sinistra, autonomista o di destra) anche se esse risultano insufficienti a prevedere eventi terroristici attuati da individui «autoradicalizzati», rispetto ai quali non abbiamo ancora raccolto dati sufficienti a tracciarne un profilo esauriente. Bisogna, dunque, lavorare di immaginazione se vogliamo potenziare le nostre capacità di contrasto. Per esempio, si discute molto sulla necessità di migliorare l’azione di prevenzione degli apparati di sicurezza e sull’esigenza di un loro più efficace coordinamento ai vari livelli (locale, regionale, statale e interstatale), molto meno sull’opportunità di una «sicurezza partecipata», implicante una più ampia diffusione della cultura della sicurezza tra i cittadini. In quest’ultima prospettiva, che reputo particolarmente rilevante, l’aiuto della società civile al lavoro degli apparati di sicurezza va concepito come una sorta di estensione di sensori nel tessuto sociale in grado di cogliere meglio il rischio attentati.
I cittadini devono però essere istruiti su come individuare i segnali sospetti e, in caso di rischio immediato, su come dare l’allarme. Devono pure essere preparati a collaborare nell’azione, tutta da inventare, di dissuasione dei soggetti in via di radicalizzazione e nelle difficili (e ad alto tasso di insuccesso) iniziative comunitarie di deradicalizzazione. Poco o nulla si è fatto, al riguardo, in Italia. Non si può perdere troppo tempo dato che la collaborazione tra cittadini e apparati di sicurezza richiede anche la messa in atto di una serie complessa di operazioni, dall’esito tutt’altro che scontato, tese a potenziare la fiducia reciproca esistente tra questi attori (A. Mutti, Apparati di sicurezza in affanno, «il Mulino», n. 1/2017).
Parecchio si deve fare anche sul terreno della risposta immediata dei cittadini ai danni indotti dall’atto terroristico e sulle azioni di lungo periodo più opportune da adottare nei confronti di chi vive la dolorosa esperienza della perdita e del trauma. Pure in questo caso disponiamo di utili riflessioni sui disastri naturali e umani inintenzionali, molto meno sulle reazioni all’evento terroristico. Tralasciando, per ragioni di spazio, la spinosa questione della formazione degli operatori pubblici e privati addetti alla sicurezza, è interessante rilevare come la ricerca comparativa tra i due tipi di eventi sottolinei che, mentre nelle situazioni immediate di disastro naturale e tecnologico gli individui reagiscono in modo prevalentemente pro-sociale, in quelle indotte dalle azioni terroristiche si assiste ad azioni sia pro-sociali, sia antisociali (H. Rodríguez et al., a cura di, Handbook of Disaster Research, Springer, 2007). Le azioni pro-sociali, in entrambi i casi, riguardano la ricerca dei sopravvissuti, l’assistenza ai feriti, l’attivismo responsabile da parte dei cittadini scampati al disastro e veri e propri atti di eroismo. Viene sottolineato anche che gli episodi di panico, shock e passività («sindrome da disastro») sono molto meno diffusi di quanto comunemente si pensi, così come il saccheggio e i comportamenti antisociali. Le azioni antisociali, specificamente legate agli eventi terroristici, hanno a che vedere invece con atti di discriminazione e di intolleranza xenofoba, successivi agli attentati, nei confronti della popolazione islamica («islamofobia»). La necessità di un’adeguata preparazione dei cittadini all’emergenza e di un’efficace azione politico-culturale per contrastare le derive xenofobe appare in tutta la sua evidenza. Si deve, inoltre, produrre un maggior lavoro di ricerca sulla gestione immediata successiva all’attentato terroristico (organizzazione dei soccorsi e del coordinamento dei vari attori pubblici e privati) e sull’intervento socio-psicologico di più lungo periodo necessario a gestire l’esperienza dolorosa e stressante della perdita e del trauma vissuta dalle vittime. Sappiamo ancora poco sull’impatto sociale del terrorismo in termini di ansie, paure, rielaborazione della memoria, a differenza di quanto sono già in grado di dirci gli studi sui disastri naturali e tecnologici. A questo proposito, molto avrebbero da raccontare i migranti vittime del terrorismo e i loro soccorritori nei punti più caldi degli sbarchi sulle nostre coste. Purtroppo, però, la sociologia italiana pare si stia lasciando sfuggire proprio questa straordinaria occasione di ricerca-intervento.
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