Che cosa sarebbe successo se il governo Draghi fosse andato a scadenza naturale a marzo 2023 e se La sfida delle disuguaglianze, uscito a settembre, fosse diventato il totem di un grande rituale politico nel campo di centrosinistra? Un rituale capace di condurre alla costruzione di un programma e di una coalizione con al centro le due idee-forza del lavoro in parola: a) solo la sinistra può salvare il capitalismo democratico e b) la convergenza al centro e l’indistinzione programmatica tra destra e sinistra sono la causa del declino della sinistra. Che cosa sarebbe successo? Non lo sapremo mai. Ma, leggendo il libro di Carlo Trigilia, non possiamo non farci sedurre dal pensiero (desiderante?) della “Storia con i se”… Quali le ragioni?
La prima ragione va cercata nella biografia dell’autore. Non è scontato che un libro di questo tipo provenga dalla penna di una delle figure più importanti della sociologia economica italiana. Carlo Trigilia è maestro riconosciuto da molti, già direttore di “Stato e mercato” (e per molti anni sua anima), sociologo dello sviluppo locale, autore del più diffuso manuale della disciplina e, nella sua vita politica, anche ministro della Repubblica e intellettuale pubblico. Così, non è scontato leggere giudizi che fanno largo uso di concetti spesso marginalizzati nel dibattito sui modelli di capitalismo: neoliberismo, egemonia, cattura cognitiva, classi svantaggiate, gruppi marginali, sicurezza. Certamente anche questo libro è saldamente radicato nel frame della political-economy comparata, ma lo è in modo, appunto, non scontato, sia per l’analisi sia per la politica.
La tesi centrale è che solo in alcuni casi (cfr. cap. I e II) i partiti di sinistra hanno mantenuto la loro capacità di rappresentanza popolare – quindi delle classi subalterne e dei ceti più deboli – saldandola e non sostituendola con quella dei ceti medi o, come diremo più vanti, con una parte di questi. Ciò ha comportato l’adozione di politiche redistributive e pro-crescita, in un ambito di “democrazia negoziale”. I casi empirici a supporto di questa tesi sono le socialdemocrazie del Nord Europa, mentre i Paesi anglosassoni rientrano nelle “democrazie maggioritarie”, caratterizzate da minore redistribuzione e buona crescita. Il caso italiano e di altri Paesi dell’Europa del Sud, invece, è classificato come “bassa crescita non inclusiva”, in cui a significativi livelli della spesa pubblica non corrispondono basse diseguaglianze e/o crescita economica (cap. V). La spiegazione di queste differenze non può essere ricondotta solo alla struttura economica: dimensioni e specializzazione settoriale (o per fase) delle imprese sono condizione necessaria ma non sufficiente per dare conto della “crescita inclusiva”.
Che cosa, quindi, fa la differenza? Anzitutto le relazioni industriali, che diminuiscono le disparità salariali, contribuendo anche alla crescita della produttività e alla flessibilità (p. 15). Si tratta di una redistribuzione che non blocca la crescita economica, perché si accompagna alla riforma del Welfare verso i cosiddetti “nuovi rischi” e all’investimento sociale pro formazione e competenze (cap. I e Introduzione). La composizione della spesa pubblica nei diversi Paesi considerati rispecchia questa differenza (pp. 68-69). Le imprese, poi, hanno un livello di tassazione elevato, ma in cambio possono godere di “beni collettivi per la competitività” che ne supportano le capacità innovative e, quindi, la loro capacità di creare ricchezza. Questa, come detto, viene redistribuita attraverso politiche fiscali e regolative anche alle classi sociali più deboli, in un contesto di relazioni industriali solide tra capitale e lavoro.
Il quadro, fino a qui, è abbastanza noto. Il vero valore aggiunto del libro risiede nelle dimensioni analitiche richiamate per dare conto di queste differenze. Qui Trigilia sceglie una strada poco battuta. La variabile indipendente “principe” è la politica: i percorsi di crescita inclusiva non sono solo definiti dalle dimensioni istituzionali, ma anche da un sistema politico capace di dare rappresentanza agli interessi delle classi e dei ceti più deboli (cap. IV). Qui contano altri fattori, tipicamente politici, come la concertazione tra governo, imprese e sindacati, la presenza di partiti di sinistra in continuità con la tradizione social-democratica e un modello elettorale basato sul proporzionale e sul multipartitismo:
“Nelle democrazie negoziali […] per andare al governo i partiti devono formare di solito delle coalizioni tra di loro dopo il voto. Ciò frena la spinta alla convergenza verso il centro […] e l’indistinzione programmatica che si riscontra invece di più nel sistema maggioritario” (p. 18).
Ciò rende più semplice per i partiti di sinistra mantenere la rappresentanza dei gruppi sociali più deboli, insieme a un’attenzione selettiva per quelle componenti dei ceti medi più favorevoli alla redistribuzione, alla riforma del Welfare e alla necessaria pressione fiscale pro-crescita inclusiva. Torneremo su questo punto nelle conclusioni. Nelle democrazie maggioritarie, invece, il neoliberismo ha facilitato una cattura cognitiva dei partiti di sinistra, che sono diventati sostenitori cruciali della stessa concezione del mondo (in termini di politica economica) dei loro competitor, creando le condizioni per una crescita non inclusiva.
L'Italia, come accennato, rientra nei casi ibridi del Sud Europa: bassa crescita e alte diseguaglianze. Anche in questo caso, la differenza cruciale va cercata nella politica (cap. V). Nei Paesi del Sud Europa c’è stata una maggiore frammentazione categoriale e di breve periodo nella ricerca del consenso, tattica che ha dato corda a politiche molto focalizzate sugli interessi di specifici gruppi sociali, senza considerare i “costi (e i benefici) di sistema” di tali politiche. Le relazioni industriali sono poco istituzionalizzate e la rappresentanza del lavoro è fortemente segnata da dinamiche insider-outsider. Perché nei casi nazionali che rientrano nelle “democrazie ibride” del Sud Europa non si è creata una stabile alleanza pro labour? La risposta di Trigilia guarda alla concorrenza a sinistra tra partiti comunisti e socialisti tipica di questi Paesi, fattore che è da ostacolo a forme di concertazione istituzionalizzate tipiche invece dei Paesi a tradizione social-democratica (cap. III). Con la crisi del modello fordista-keynesiano si ha un ridimensionamento della classe operaia e la crescita di forme di occupazione nei servizi spesso a minor valore aggiunto e con rapporti di lavoro più flessibili e precari. Lavoratori, quindi, meno facilmente mobilitabili in termini di azione collettiva. Diversa, e cruciale, è la relazione con i ceti medi dei servizi qualificati, da quelli sociali a quelli culturali, fino a quelli finanziari. Qui le leve nelle mani dei partiti di sinistra sono essenzialmente culturali (valori “post-materialisti”) e legate a un’offerta politica basata sui diritti civili. Il consenso di questi ceti medi, però, non aiuta la creazione di quelle politiche redistributive che caratterizzano la crescita inclusiva, dal momento che questi gruppi non hanno particolare attenzione per la redistribuzione.
Il rischio è rompere il rapporto con l’elettorato storico, operaio e popolare, e creare un’offerta politica poco distinguibile tra destra e sinistra sul piano economico, che schiaccia le differenze solo sul piano culturale
Al contrario, ci sono parti di ceto medio che guardano con maggior favore alla redistribuzione, come insegnanti, professioni sanitarie, operatori dei servizi sociali, addetti nei settori dell’industria culturale. Qui il dilemma (spiegato nel cap. III): la crisi della base operaia e industriale lascia spazio al mercato e ai servizi, orientati a una domanda politica pro-mercato e alle libertà civili più che a quelle sociali e alla redistribuzione. Spingere troppo lungo questa strada, però, rompe il rapporto con l’elettorato storico, operaio e popolare, creando un’offerta politica poco distinguibile tra destra e sinistra sul piano economico, che schiaccia le differenze solo sul piano “culturale” e, appunto, dei diritti civili. L’emblema dell’indistinzione programmatica è la Terza via del New Labour di Blair e Brown, con partiti della tradizione di sinistra sempre meno caratterizzati da una dirigenza di provenienza popolare, con una cultura economica modellata sul "there is no alternative", che abbandona i territori più colpiti dalla globalizzazione, dalle aree interne alle periferie, dove si annideranno il malumore e il risentimento dei “luoghi che non contano” (A. Rodriguez-Pose, The Revenge of the Places That Don’t Matter (And What To Do About It), "Cambridge Journal of Regions, Economy and Society", n. 1/2018).
Qui, in questo quadro, nasce e cresce “il grande esodo” e il declino della sinistra (cap. III). Tema, questo, un po’ trascurato da Trigilia: la polarizzazione territoriale del voto è infatti una costante di tutti i percorsi di crescita considerati, inclusivi o meno. Possiamo ancora parlare di capitalismi al plurale? Al netto di questo aspetto, ci sono pochi Paesi dove si afferma una sinistra radicale di una certa consistenza (Die Linke in Germania, Podemos in Spagna, Syriza in Grecia) che, in alcuni casi, riesce a spostare più a sinistra il baricentro del sistema politico. Nella maggior parte dei casi, però, l’esodo ha visto la classe operaia, i salariati dei servizi e i settori del lavoro autonomo votare i partiti di destra radicale, a spese sia del centrosinistra sia della destra liberale. Si tratta, come ha lucidamente argomentato Paolo Gerbaudo (Controllare e proteggere. Il ritorno dello Stato, Nottetempo, 2022) di risposte (spesso identitarie) alle domande di “controllo e protezione” delle persone, sempre più esposte a precarietà e incertezza. In questo quadro, i partiti di centrosinistra appaiono come i difensori privilegiati dei diritti civili, in conflitto con i valori tradizionalisti che spesso permeano l’elettorato storico, e lontani dai bisogni materiali e dall’economia della vita quotidiana che forma l’infrastruttura economica della cittadinanza (cfr. Prima i fondamentali, a cura di J. Dagnes e A. Salento, 2022). Sono, queste, tipiche diseguaglianze di riconoscimento, segnate dalla distanza tra i valori, le priorità, le regole pratiche e gli stili di vita dei ceti popolari da quelli delle classi dirigenti (cfr. Un futuro più giusto, a cura di F. Barca e P. Luongo, Il Mulino, 2020). Il ruolo autonomo di tali diseguaglianze è accennato con riferimento ai “fattori culturali” che, anche nei Paesi nordici a crescita inclusiva, portano consenso ai partiti populisti di destra. Le elezioni in Svezia del settembre 2022, dove l'estrema destra dei Democratici svedesi ha ricevuto oltre il 20% dei voti, rientrerebbero in questo caso. Si tratta, però, del tipico modo di includere ex post i casi devianti, invalso nella political-economy comparata, dove “un caso anomalo fa nuova teoria”.
Perché il nativismo attecchisce anche nei Paesi a crescita inclusiva? Perché anche in questi casi la destra identitaria si fa portatrice con successo di istanze populiste, animate da un discorso pubblico che contrappone un corpo sociale omogeneo e “buono” contro l’élite corrotta, che si dimentica dei “connazionali” e dei gruppi deboli a favore di immigrati, stranieri e omosessuali? Il libro di Trigilia ci ricorda che sono le scelte di politica economica e del lavoro che creano o distruggono la base sociale del consenso ai partiti di sinistra: in Italia, la parte di ceto medio meno ostile alle politiche redistributive è stata precarizzata e maltrattata, senza uno straccio di politica industriale, dell’occupazione pubblica e di protezione dei diritti.
Torniamo così alla “storia controfattuale” con cui abbiamo aperto queste note: se il centrosinistra si fosse fatto promotore di politiche industriali e occupazionali rivolte a rafforzare quella parte di ceto medio più incline a sostenere percorsi di crescita inclusiva – e se non avesse abbandonato la classe operaia ai capricci di un ceto imprenditoriale orientato alla via bassa per la competitività – forse non avrebbe contribuito a distruggere la base sociale del suo stesso consenso politico. Lo ha fatto e, purtroppo, non ha letto questo libro in tempo per cambiare strada. Speriamo in un ravvedimento operoso, di cui oggi più che mai si sente un bisogno enorme.
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