Dato certo è che a rendere unico nell’intero Occidente il patrimonio storico e artistico italiano è l’impossibilità di prescindere dall’ambiente in cui è andato stratificandosi nei millenni, la sua onnipresenza sul territorio. Il che significa che restauro, conservazione, tutela e valorizzazione del patrimonio artistico rischiano di essere azioni inutili (e perciò stesso conservativamente dannose) quando non siano accompagnate da azioni analoghe per l’ambiente, visto che è dagli squilibri ambientali che vengono tutti i possibili danni alle opere d’arte (e non solo, visto i danni materiali a uomini e cose prodotti, ad esempio, da frane e smottamenti).

Una piana evidenza, questa, che non è tale nel Paese e nelle sue istituzioni per un inciampo di natura culturale e giuridica. Vale a dire la permanenza nelle istituzioni – le soprintendenze ad esempio – della cultura, tra storicistica ed estetica, alla base della legge di tutela 1089 del 1939, legge mantenuta in vigore fino al Testo unico del 1999 che l’ha assunta tale e quale e la cui ratio, nei fatti, ancora governa il Codice del 2004.

Una legge, la 1089 del 1939, pensata per un’Italia fortemente centralistica, quella monarchica e fascista del re e del duce, ma prima ancora intatta sul piano ambientale. L’arcaica Italia con un’economia rurale il cui patrimonio storico e artistico era ancora integro anche perché capillarmente presidiato. Nelle città e nei paesi, i cui abitati di fatto coincidevano con quello che oggi chiamiamo «centro storico» e dove ogni palazzo, ogni casa e ogni chiesa era abitata e vissuta, così da render normale lo svolgimento d’una capillare opera di manutenzione, legata alla plurisecolare tradizione delle arti e mestieri che nel nostro Paese sembrava non dovesse mai esaurirsi. Nel territorio, dal di nuovo capillare lavoro di contadini intenti, allora, a coltivare anche la più grama e sperduta particola di terra, quindi a tenere pulite (gratuitamente) rive di fiumi, torrenti e fossi, principi di frane, sottobosco e così via. Un’Italia il cui patrimonio artistico era perciò auto-tutelato sul piano ambientale, consentendo alla sparuta pattuglia dei pochissimi (allora) laureati in archeologia, storia dell’arte e architettura divenuti soprintendenti, di fare del proprio compito istituzionale un lavoro di ricerca di natura storico-artistica nei fatti simile, o parallelo, a quello dei docenti universitari, lavoro in genere attivato da restauri di rivelazione estetica e critica di singole opere.

Mutata radicalmente quanto rapidissimamente nel secondo dopoguerra la situazione socio-ambientale italiana nei modi a tutti noti, è evidente come una simile azione di tutela si rivelasse del tutto inadeguata: in particolare di fronte a problemi ambientali che cominciavano a investire non più le singole opere, ma il patrimonio artistico nella sua totalità, gli stessi problemi che trovano nell’alluvione di Firenze del 1966 il loro primo esito maturo e che in questi ultimi decenni si sono andati sempre più aggravando. Il che diceva del tutto superata quella legge monarchica che si basa su leggi di tutela che ritengono che il patrimonio artistico altro non sia se non la somma di tutte le singole opere che lo costituiscono, concludendone che la sua conservazione coincide con il restauro critico-estetico, una per una, di quelle stesse opere. 

Un’impresa non realizzabile perché smisurata, ma che prima ancora pone il problema conservativo esattamente all’inverso di come andrebbe impostato, ovvero assumendo il patrimonio artistico come una totalità la cui conservazione è tutt’uno con quella dell’ambiente: dissesto idrogeologico, inquinamento atmosferico, spopolamento dei centri storici delle città, come delle campagne, ancor più delle zone site nelle aree medio e alto collinari e le montagne. E così via. Basti ricordare, rispetto a quest’ultimo problema, che statisticamente degli oltre 8.000 comuni italiani, 3.000 sono i cosiddetti «paesi fantasma», perché del tutto o quasi disabitati, e altrettanti hanno meno di 5.000 abitanti. Il che significa che più di due terzi del territorio sono abbandonati o stanno per esserlo, come tragicamente stanno confermando in queste settimane i terremoti di Norcia, Amatrice, Visso e quant’altro.

A tutto questo, che già è moltissimo, oggi si aggiungono nuove sfide di straordinaria portata, a cominciare dai rapporti tra crescita e globalizzazione della domanda di cultura, a fronte di una disponibilità di beni storici certo in Italia molto cospicua, ma comunque finita e non rinnovabile. Un dato di fatto che evidenzia una volta di più il vantaggio enorme che l’Italia ha di possedere gli originali di opere d’arte, città e paesaggi, dato di fatto che troppo spesso sfugge a molti e che conferma la centralità dell’azione conservativa anche come fondamentale premessa delle azioni di valorizzazione.

Ancor più a fronte della prospettiva di soluzioni impensabili fino a poco tempo fa, quali l’innovazione tecnologica delle riproduzioni in 3D o la dematerializzazione delle opere, le stesse che, in termini di diffusione e riproducibilità, costituiscono allo stesso tempo pericolo e salvezza. Per fare un solo esempio, il tablet e altri strumenti del genere alterano infatti il rapporto con le opere d’arte, rendendone per certi versi quasi inutile la presenza fisica: lo si nota in molti musei, dove i visitatori sono spesso più attenti al loro device che all’opera originale cui sono di fronte. Certo tali strumenti possono essere utilizzati per far convivere il patrimonio artistico con il numero chiuso di accessi per intere città, tendenza di cui ormai molto si parla (si pensi a Barcellona, ad esempio, se non alla nostra Venezia), ovvero per raggiungere in via virtuale piccoli paesi, siti archeologici, singoli monumenti collocati in zone di non semplice raggiungibilità o di complicata fruibilità perché chiusi.

Né di minore importanza è la perdita del significato simbolico in gran parte della popolazione, specie nei giovani, di un patrimonio di opere quasi sempre illustrative di fatti della religione cattolica, vite di Cristo e dei Santi, miracoli e altro, sia in ragione della sempre maggiore secolarizzazione della società occidentale, sia per la sempre crescente presenza in Italia di persone di altre religioni: basti, in questo senso, che ad aprire e chiudere le 110.000 chiese italiane è un clero che ha un’età media di circa 70 anni.

Fenomeni, questi appena detti, cui si è ormai da alcuni decenni aggiunta l’ingresso nel mondo della tutela della nozione di bene culturale, cioè di tutto ciò che per noi abbia assunto valore di testimonianza storico-antropologica; beni culturali la cui ultima onda è l’attenzione sempre maggiore per gli oggetti di design – dal fucile di latta al televisore Philco che si vendono nei mercatini, ma a cui già si cominciano a dedicare, per adesso fuori dall’Italia, musei. Il che conferma ancora una volta la forte torsione di una dimensione culturale e artistica da sempre legata a profonde radici popolari, ma mai così esposta all’inedito binomio di società di massa-multiculturalismo.

Non dovrebbe essere necessario sottolineare ancora quanto tutto ciò incida sulle premesse concettuali, prima ancora che sui contenuti e sulla strumentazione concreta, sia rispetto a ciò che la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale vogliono dire oggi, sia a come dovrebbero essere pensati per il futuro. Né occorre aggiungere l’importanza che questi temi hanno per l’Italia in un duplice senso: perché si stenta ancora a comprendere che è l’intera penisola e non singoli siti a costituire «patrimonio dell’umanità» e perché, proprio per questo, non è possibile concepire governo e sviluppo del Paese senza comprenderne, e rispettare, un intreccio che va oltre la semplice compatibilità costituendone semmai la forte, vera e intima trama.

Tutto ciò detto, resta che le pesanti alterazioni, quando non direttamente il degrado, operati sulle città e sul paesaggio dalla metà del secolo scorso hanno mutato radicalmente il tradizionale quadro preesistente, scrivendo un ulteriore capitolo del difficile incontro del nostro Paese con la modernità, quello che sempre più appare uno dei punti chiave della crisi italiana. Con l’aggravante di quanto notava quasi mezzo secolo fa Giovanni Urbani, la «grande scissione che è l’essenza della modernità: la scissione tra arte e scienza»; aggiungendo che l’unico modo che ha il nostro tempo per saldare quella scissione è di spostare la creatività che aveva presieduto alla produzione dell’arte del passato verso l’innovazione tecnica e l’immaginazione scientifica necessarie a conservare quella stessa arte del passato. E qui si torna al problema del patrimonio artistico come totalità, poiché solo sul piano dell’insieme e della totalità la scienza può venirci incontro.

Si tratta, è bene sottolinearlo, di un passaggio cruciale perché la scienza, vista come momento dell’integrazione materiale dell’oggi nell’arte del passato, libera il patrimonio artistico dalla gabbia asfittica della Storia come ostacolo (storicismo) agevolandone la trasformazione in senso opposto, cioè facendone la base per l’apertura ai mille ambiti nei quali già oggi il patrimonio culturale ha un forte impatto – concreto – sulla società.

Ambiti giuridici (si pensi al delicatissimo tema del regime di proprietà o a quello degli espropri), economici, fiscali, sociologici, paesaggistici, informatici, infrastrutturali, storici, fino alla grande sfida di una progettazione architettonica e ingegneristica orientata a un riuso compatibile dell’esistente storico e in particolare dei centri storici. Per aprire infine il tema della conservazione del patrimonio artistico nella ricerca scientifica in settori quali la domotica, le energie rinnovabili, i sistemi di trasporto leggero, i nuovi materiali di costruzione, la conservazione preventiva e programmata del patrimonio artistico in rapporto all’ambiente, dando in tal modo un lavoro qualificato perché certo e necessario a molte migliaia di giovani.

In gioco, dunque, non ci sono solo la salvaguardia di un patrimonio culturale eccezionale e un’importante leva di sviluppo sostenibile, ma, più a fondo, un’azione organizzativa razionale e coerente con cui risarcire il rischio di valori e di identità smarriti. Un tema che potrebbe trovare la propria sintesi nella fondazione di una inedita «ecologia culturale», che faccia del patrimonio artistico una componente ambientale necessaria al benessere della specie umana al pari di quelle naturali.

 

[Questo articolo rielabora un documentato preparato in vista di un seminario su questi temi tenutosi nella Biblioteca del Mulino il 12 novembre scorso]