L'insurrezione democratica che attraversa il mondo arabo non è che all’inizio e, come tutti i grandi rivolgimenti storici, conoscerà sconfitte, battute d’arresto, tradimenti e rotture. Non ci sarà un effetto domino tra movimenti che sono profondamente radicati nel proprio contesto specifico. La moderna e irresistibile rinascita cui stiamo assistendo, la vittoria di una generazione determinata a riprendere in mano il proprio destino, porta in sé le promesse incompiute e l’energia emancipatrice della precedente, in arabo “Nahda”, che si aprì con la spedizione di Bonaparte in Egitto e si concluse con la seconda guerra mondiale.

L’insurrezione libica, in particolare, si ispira alla lotta accanita condotta tra il 1911 e il 1931 dal leader della resistenza anti-italiana Omar al-Mukhtar contro la colonizzazione. L’assimilazione di Gheddafi al governatore fascista di allora non è solo un esercizio retorico: la manipolazione delle divisioni territoriali e tribali è ugualmente implacabile, l’accanimento contro la Cirenaica è ugualmente brutale e il prezzo pagato dalla popolazione per il consolidamento di un potere assoluto è allo stesso modo pesante. I rivoluzionari libici hanno perciò ripreso in pieno accordo l’emblema dell’indipendenza del 1951, non per manifestare la propria volontà di restaurare la monarchia, ma perché il re Idriss I, erede di un regno federale, era riuscito a unificare le tre aree della Tripolitania, della Cirenaica e del Fezzan. D’altronde i ribelli – civili e militari –insistono in modo quasi ossessionante sull’unità della Libia.

Questa intifada democratica è vissuta per lo più come un movimento di liberazione nazionale, poiché il regime di cui si invoca la caduta è considerato come straniero da una nazione calpestata. Da qui, l’esaltazione dell’esercito quando si unisce alla popolazione; da qui, il mare di bandiere sul Cairo l’11 febbraio; da qui, la verve patriottica che si mostra alla minima occasione. Ma questo orgoglio nazionale ritrovato grazie alla lotta dà anche la forza di trattare "normalmente" le potenze straniere, sulla base del rispetto e dell’uguaglianza, abbandonando le fumose teorie del complotto che ancora agitano i dittatori e la loro cricca. E proprio nell’aspirazione a ridare sostanza a un’indipendenza troppo a lungo rinviata che si annoda il legame tra la prima e la seconda rinascita araba.

La nuova rivoluzione araba è frutto della tensione portata all’estremo tra la ragione di Stato e la ragione del regime in carica, che è giunto nei decenni a equiparare questa e quella, come se ciò che è vantaggioso per la classe dirigente debba esserlo anche per il Paese. I capricci del colonnello Gheddafi, rovinosi per la Libia e per il suo sviluppo, gli hanno permesso di battere tutti i record di longevità, in una ragione comunque segnata dalla stabilità dei poteri insediati. Ma l’intifada democratica riesce a radunare attorno all’interesse nazionale un movimento composito, che l’esercito ha rifiutato di combattere, in Tunisia come in Egitto. Anche in nome della difesa della patria contro il suo peggior nemico una parte importante dei militari libici è scivolata nella ribellione.

Si tratta di una dimensione nazionalista che si inscrive nel quadro delle frontiere post-coloniali, lontane dall’essere messe in discussione e, di fatto, consacrate dai movimenti rivoluzionari. La vittoria della ragione di Stato sulla ragione del regime alimenta inoltre un’estrema sensibilità verso la questione dell’ingerenza straniera. Questo è il contesto in cui si muove il burrascoso dibattito circa l’intervento in Libia. Dimenticandosi che la prima missione militare condotta dai giovani Stati Uniti fu contro la Libia “barbarica” che depredava le loro navi e ne sottometteva gli equipaggi. Nel 1805 la bandiera stellata sventolava anche sulla città di Derna, in Cirenaica, dove un pretendente al trono libico era stato sistemato sotto protezione americana… prima di essere sacrificato al profitto di un accordo tra Washington e Tripoli.

Delle “Bastiglie” sono già cadute, a Cartagine, quando l’armata lealista ha braccato i sicari del regime fin nel palazzo presidenziale; a Bengasi, quando i sepolti vivi della Jamahiriyya sono emersi dalle loro celle; ad Alessandria, quando i manifestanti si sono impadroniti dei locali della polizia politica e dei suoi archivi.

La rinascita araba, sollevata dall’ipoteca imperialista che aveva minato la prima Nahda, rivendica l’universalità dei valori della Rivoluzione – l’americana, la francese e oggi l’araba. Tale è la posta in gioco di questa seconda rinascita.

 

[Traduzione di M. Eleonora Landini]