La verità è che non vedevamo l’ora di tornare in classe. Il primo giorno di scuola ci avrebbe riportato a una dimensione concreta, quotidiana, vera. Ci saremmo finalmente ritrovati davanti agli studenti, senza schermi a dividerci. Avrebbe significato, altresì, la riappropriazione di spazi e relazioni fisiche che erano venuti a mancare.
Come si è ben visto, la scorsa estate è stata segnata dai dibattiti sul mondo della scuola con posizioni troppo spesso alimentate dai luoghi comuni o dalle verità facili, a discapito delle riflessioni consapevoli su diritto all’istruzione, sicurezza e ricerca di una soluzione adatta. Poi è arrivato settembre che, oltre ad aver portato con sé la voglia di comprare agende, quaderni e matite, ci ha ricordato che era giunto il momento di ricominciare per davvero.
Protocolli e circolari si sono alternati nei giorni precedenti la ripresa. Diversi documenti che chiarivano i comportamenti da tenere, quelli da evitare e si appellavano al senso di responsabilità da parte della comunità scolastica. Sulla carta tutto sembra facile.
E sotto un certo punto di vista lo è stato. La normativa, del resto, offre risposte alla maggior parte degli interrogativi. Le procedure da seguire all’ingresso della scuola sono chiare e trattasi di dinamiche alle quali avevamo già avuto modo di abituarci nel periodo precedente alla riapertura, tanto da viverle con spontaneità, o quasi. Scanner parlanti che registrano la temperatura all’ingresso, dispenser di liquido igienizzante sparsi per i corridoi e presenti in ogni aula, manifesti appesi ai muri e alle porte che ricordano quanto è importante lavarsi le mani.
Ma la scuola trascende questa dimensione meramente normativa. La vera trasformazione ha riguardato piuttosto il nostro modo di abitare quel mondo. Aule e corridoi, in cui un tempo sostavamo con disinvoltura, si sono trasformati in uno spazio che ci richiede di mantenerci distanti. Per il bene di tutti, certamente. Niente più intervalli e, di conseguenza, niente più atri affollati, niente più code alle macchinette e sulle scale. Luoghi da vivere secondo nuove consuetudini. Ma anche il tempo è cambiato: le ore si sono ridotte di dieci minuti per consentire agli studenti di provvedere alla sanificazione e di concedersi un momento di svago, dato che non possono uscire dall’aula; la durata della lezione dipende spesso anche dalla qualità della connessione necessaria per permettere di seguire anche da casa. La vita scolastica sembra trascorrere a rallentatore.
Lo stare in classe è vissuto diversamente. I volti degli studenti si vedono a metà, nascosti dietro le mascherine. Mi capita di pensare che di alcuni studenti, conosciuti quest’anno per la prima volta, non ho ancora avuto il modo di scorgerne l’intero viso: di loro riuscirei a stento a riconoscerne le espressioni. I banchi singoli hanno cambiato il modo di interagire tra gli studenti, abituati ad avere un compagno di banco: durante le lezioni li scopro salutarsi, sorridersi e guardarsi a distanza. Parlare è diventato più faticoso anche se, col passare dei giorni, ci si presta meno attenzione e, pian piano, si finisce col farci l’abitudine. Ascoltare, invece, rimane un esercizio complesso: richiede molta concentrazione e, quando ancora non conosci le voci, crea attimi di disorientamento perché non riesci a capire chi ti sta rivolgendo la domanda. Chissà che questo nuovo modo di stare a scuola possa contribuire a far capire l’importanza del silenzio quando un altro prende la parola, al rispetto di chi sta condividendo le sue opinioni, ad aspettare il proprio turno senza voler scavalcare il compagno. Chissà che questo nuovo modo di vivere collettivo non diventi un’ulteriore possibilità per la scuola di formare i cittadini del futuro. Basti pensare a come la sanificazione dei banchi e la pulizia delle mani con il disinfettante siano ormai diventati rituali. Gli studenti sanno obbedire e rispettare le regole, ma sanno farlo con molta più leggerezza e spontaneità. In generale, mi sembra di scorgere una delicatezza e un’attenzione nello stare gli uni accanto agli altri. Che si tratti di studenti con studenti, studenti con docenti o docenti tra di loro, sono convinta che la scuola sia il luogo adatto per cogliere, ora più che mai, la sfida del presente e trasformarla in un’occasione per riflettere sul senso dello stare insieme, sull’essere comunità.
Un altro aspetto che ha subito un cambiamento non indifferente è quello, ovviamente, della didattica. In ogni aula della scuola dove insegno è stata installata una telecamera, al centro del soffitto, così da permettere la didattica integrata nelle classi in cui c’è bisogno. Metà classe in presenza, metà classe a distanza. La telecamera riprende il docente frontalmente, mentre fa lezione agli studenti in aula. Sulla Lim, compaiono gli studenti che seguono la lezione da casa e l’inquadratura ripresa dal dispositivo sul soffitto. Ci sono io, dentro quell’inquadratura. Io tra la cattedra e la lavagna. In quello spazio ristretto, che ora più che mai è uno spazio vitale, in quanto devo cercare di starci dentro per permettere a chi sta a casa di vedermi. Ho dovuto imparare a far fronte alla sensazione – talvolta – di essere come spiata, così come ho dovuto superare la perplessità di parlare ad alta voce, rivolgendomi al soffitto per avere la certezza di essere sentita da quanti seguono da remoto. Non mancano le situazioni surreali: mi è capitato che una studentessa da casa mi chiedesse il permesso di alzarsi per chiudere le finestre dato che aveva iniziato a grandinare.
Anche lo smartworking, infine, ha lasciato traccia nel mondo della scuola. E in questo caso non mi riferisco solo alla didattica. Al momento, nella mia scuola, collegio docenti, consigli di classe e riunioni sono programmati a distanza. Una rivoluzione che sta interessando l’intero mondo del lavoro e che non poteva non coinvolgere anche la scuola.
Credo di poter affermare che l’esperienza del lockdown abbia reso la scuola più vulnerabile ma anche più coraggiosa. Quei mesi hanno significato il mettere in luce limiti ma anche opportunità per il mondo dell’istruzione. Hanno costretto i docenti a fare un salto tecnologico e a ripensare il proprio modo di fare didattica, hanno richiamato l’attenzione su quella che è e deve essere l’essenza della scuola, così come hanno evidenziato le disparità tra studenti e tra scuole sul territorio nazionale. Quest’ultimo credo sia il problema più urgente e lo dico sposando quella tradizione che nella scuola non vuole nessuno escluso.
Mentre scrivo è lunedì pomeriggio, per l’esattezza il 5 ottobre. Sono ormai passate alcune settimane dall’inizio del nuovo anno scolastico. L’homepage di Google mi ricorda che oggi è la Giornata mondiale degli insegnanti. E io, che solitamente non amo le giornate mondiali, ci penso su.
Accanto al pc, sulla scrivania, ho una copia de Il Principe di Machiavelli. Lo sto affrontando a lezione e ne leggo qualche passaggio in classe. Nel capitolo XXV, dedicato a Quantum fortuna in rebus humanis possit, et quomodo illi sit occurrendum, vale a dire il peso della sorte nelle nostre vite, il filosofo riporta la nota immagine del fiume, metafora della «fortuna». Ci mette in guardia: può accadere che la sorte arrivi a travolgerci come un fiume in piena, se ci facciamo trovare impreparati, se non costruiamo argini o ripari. «Similmente – continua Machiavelli - interviene della fortuna: la quale dimostra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle».
Che sia una forma di virtù, quella che le scuole del nostro Paese hanno messo in campo per porre resistenza alla pandemia e per dimostrare la propria determinazione nel voler tornare a fare lezione in classe? Procediamo con cautela, di giorno in giorno, prestando attenzione ai dati dei contagi, tirando un sospiro di sollievo a ogni tampone negativo di studenti e docenti. Non possiamo prevedere come andrà ma cerchiamo di dare il nostro contributo. Ci prendiamo cura gli uni degli altri e questo importa. La scuola deve essere, oggi più che mai, il luogo dove si coltiva il sapere e si impara il senso della responsabilità.
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