«La scuola italiana migliore d’Europa: riduce il gap tra i ricchi e i poveri». Questo il titolo con cui ieri «la Repubblica» dava notizia di una ricerca Ocse appena pubblicata. Un titolo che è un vero assist per la ministra Fedeli nel cui comunicato stampa si legge: «I dati pubblicati dall’Ocse ci dicono che la scuola italiana è una scuola inclusiva, capace di supportare le studentesse e gli studenti che partono da condizioni più svantaggiate». Segue Matteo Renzi, che commenta: «la notizia più bella riguarda la scuola visto che oggi l'Ocse ci promuove. Continuo a pensare che sulla scuola abbiamo fatto molto ma abbiamo anche sbagliato approccio. Punti come il merito, l'alternanza scuola lavoro, la fine del precariato, il potenziamento degli insegnanti, la formazione, l'edilizia scolastica, il diritto allo studio … sono tuttavia [sic!] per me molto importanti».
Ma quali sono le belle notizie che arrivano dai dati Ocse? E soprattutto è vero che con quel rapporto l’Ocse promuove la «scuola italiana»?
Per capirlo non c’è bisogno di leggere le 118 pagine del rapporto completo, basta leggere la sintesi predisposta per la stampa.
Per ogni Paese il rapporto rileva in un campione di quindicenni la disparità di competenze dovuta alle condizioni socio economiche e la confronta con la disparità di competenze a 12 anni di distanza, quando quei quindicenni hanno ormai raggiunto i 27 anni di età.
Per ogni Paese, Ocse considera il campione degli studenti 15enni sottoposti al test Pisa (Programme for International Student Assessment), suddivisi in individui avvantaggiati, con un genitore laureato e più di 100 libri in casa, e in individui svantaggiati, che non hanno genitori laureati e meno di cento libri. Viene quindi calcolato il risultato medio nei test dei due gruppi. La differenza tra i risultati dei due gruppi è considerata l’indicatore di disparità di competenze riconducibile alla differenza di condizioni socio economiche individuali. Gli individui nei due gruppi sono giovani che hanno concluso la scuola secondaria di primo grado. Per cui i risultati di questa disparità sono interpretati come determinati in gran parte dalla scuola: un elevato grado di disparità indica una scuola con basse capacità di recuperare gli svantaggi socio-economici individuali, e viceversa.
Questo primo indicatore di disparità viene poi confrontato con un indicatore di disparità costruito in modo del tutto analogo, considerando il campione dei giovani adulti (26-28 anni) di ogni Paese che sono stati sottoposti all’indagine Piaac (Programme for the International Assessment of Adult Competencies).
Non è questa la sede per discutere la fondatezza metodologica dei test Pisa e Piaac (una ottima rassegna divulgativa in italiano del dibattito internazionale è disponibile qui). Serve invece sottolineare che l’obiettivo della ricerca Ocse è verificare se le disparità di competenze tra individui avvantaggiati e svantaggiati tenda ad amplificarsi o a ridursi nel passaggio dall’adolescenza alla vita adulta. Per realizzare una ricerca di questo genere sarebbe necessario in linea di principio che gli adolescenti sottoposti al test Pisa siano sottoposti dodici anni più tardi al test Piaac. Poiché questo non è tecnicamente possibile, Ocse ha trovato una soluzione ingegnosa. Ha considerato i dati relativi al test Pisa dell’anno 2000, che fu realizzato con un campione di individui che avevano circa 15 anni nel 2000 (nati nel 1985); e li ha confrontati con i risultati dell’indagine Piaac realizzata nel 2012, condotta su un campione di giovani adulti (27 anni) che nel 2000 avevano appunto quindici anni.
Quali sono i risultati dell’indagine per l’Italia? I risultati dell’indagine Ocse dicono che nel 2000 in Italia le disparità di competenze tra il gruppo dei più avvantaggiati e quello dei meno era da considerarsi come di «medium size» (per questa nomenclatura si veda il rapporto Ocse completo a p. 40). Avete letto bene. Il rapporto Ocse pubblicato ieri si riferisce ai dati del 2000, quando era ministro dell’Istruzione Tullio De Mauro, quando le scuole secondarie inferiori si chiamavano ancora scuole medie e c’era ancora la scuola elementare.
Possiamo quindi affermare con certezza che i dati Ocse riportati su «Repubblica», che omette ogni riferimento temporale, e commentati dalla ministra Fedeli e da Matteo Renzi, non dicono proprio nulla sulla scuola italiana di oggi. A meno che non si sia verificato un miracolo retroattivo, e la Buona scuola di Renzi abbia migliorato l’inclusività delle scuole elementari e medie italiane nel 2000.
Ci permettiamo quindi di suggerire alla ministra Fedeli di modificare l’apertura del suo comunicato stampa scrivendo una cosa del tipo: «I dati pubblicati dall’Ocse ci dicono che nel 2000 la scuola italiana era una scuola inclusiva». E forse anche Renzi dovrebbe modificare il testo del suo post scrivendo: «oggi i dati Ocse promuovono la scuola italiana del 2000».
Ma forse neanche queste correzioni corrisponderebbero ai dati presentati dall’Ocse, perché i dati dicono che la scuola italiana del 2000 non era poi così inclusiva. I dati dicono che nel 2000 le disparità socio economiche erano «medie», sicuramente inferiori a quelle degli Stati Uniti e della Turchia, ma maggiori di quelle registrate in Austria, Francia, e soprattutto Irlanda, Finlandia, Grecia, Svezia e Norvegia. Non era quindi neanche allora «la migliore d’Europa», e forse neanche quella scuola sarebbe stata da promuovere.
Quella scuola «mediamente» inclusiva, nell’ultimo quindicennio è stata sottoposta ad una cura a base di «meritocrazia», aziendalizzazione, valutazione e Invalsi. Cura il cui obiettivo principale è stato la riduzione della spesa e il recupero di efficienza, non certo quello di far diventare la scuola «sempre più inclusiva», per parafrasare ancora la ministra Fedeli. Viene il dubbio che si sia sbagliata la cura. Anche a causa di una discussione pubblica sul tema dell’istruzione e della ricerca che è stata ed è caratterizzata da interventi di imbarazzante incompetenza, come dimostra in modo magistrale, il surreale triangolo di voci originato dall’ultima ricerca Ocse.
Sia concesso chiudere con una nota di speranza. Gli unici ad aver guardato con attenzione la ricerca Ocse sembrano essere gli studenti dell’Udu che in un felice tweet hanno sintetizzato correttamente i risultati per l’Italia: «le disuguaglianze crescono dopo la scuola dell’obbligo» (e questi almeno sono dati 2012!).
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