Una domanda che ricorre spesso nei dibattiti odierni riguarda il motivo per cui l’Unione europea risulti così ininfluente nella crisi apertasi nell’ottobre 2023 con il conflitto tra Hamas e Israele. La risposta che si sente dare più frequentemente imputa tale debolezza, pressoché esclusivamente, alle differenti opinioni esistenti tra gli Stati membri sulla questione palestinese. Credo che tale giudizio rifletta solo una parte della verità e risulti quindi sostanzialmente semplificatorio.
In realtà, l’Unione europea non ha mai avuto una politica estera comune e gli Stati membri hanno spesso assunto, anche in passato, posizioni divergenti su molti dossier internazionali. Tra gli esempi più significativi, la guerra in Iraq o anche le frequenti risoluzioni sulla Palestina approvate nell’ambito delle Organizzazioni internazionali, in particolare l’Onu e le sue Agenzie specializzate. Eppure – nonostante questo – fino a dieci/quindici anni fa l’Europa contava ed era protagonista nei meccanismi diplomatici che venivano messi in piedi: si pensi per tutti al Quartetto per la questione palestinese, formato da Usa, Russia, Onu e, appunto, Unione europea.
Anche in occasione del conflitto tra Hamas e Israele si è verificata una chiara divergenza di opinioni in ambito Ue. Durante il Consiglio europeo del 26-27 ottobre scorso, la discussione si è trascinata per ore sulla scelta del linguaggio su Gaza per il comunicato finale. E poi, in sede Onu, sull’appello per un cessate il fuoco, alcuni Paesi hanno votato a favore (Francia, Spagna, Portogallo, Irlanda, Belgio) e alcuni contro (Austria, Ungheria, Repubblica Ceca, Croazia), mentre altri si sono astenuti (Germania, Italia, Grecia, Olanda). Dunque, niente di nuovo sotto il sole quanto a pluralità di opinioni, ma l’Europa non è riuscita – a differenza che in occasioni passate – a diventare un attore primario della girandola diplomatica che tenta di risolvere la crisi, ormai gestita principalmente da Usa e Paesi del Golfo (in particolare Qatar e Arabia Saudita), nonché da Egitto e Turchia. A ben vedere, però, in molte altre vicende del nuovo millennio è successa la stessa cosa. Pensiamo all’Afghanistan (Washington non ci ha neanche consultati prima di decidere il ritiro dal Paese), alla Libia (benché vicinissima al nostro continente, il pallino del gioco è in mani turche, russe, emiratine ed egiziane) e alla Siria (dove spadroneggiano russi, turchi e iraniani). Unicamente nei litigi tra Serbia e Kossovo l‘Ue riesce ad avere qualche impatto, grazie alle promesse di futuro accoglimento nell’Unione. Come mai? Perché questa umiliante débâcle in termini di influenza?
I motivi sono molteplici, ma la ragione fondamentale è che mentre il resto del mondo andava avanti e progrediva assai rapidamente, l’Unione europea negli ultimi venti anni è rimasta praticamente immobile, bloccando o rallentando enormemente il suo processo di integrazione e di aggiornamento alle nuove realtà emergenti (che era stato graduale, ma reale, tra il 1957 e i primi anni del 2000). Il che ha provocato il sorpasso, in termini di peso specifico sulla scena internazionale, a opera di nuovi attori come i Brics (a parte la Russia, soprattutto la Cina e l’India), la Turchia e le monarchie del Golfo, i quali sono diventati i veri interlocutori della superpotenza americana, grazie alla loro accresciuta centralità economica e assertività politica. Per cui, fino all’inizio di questo millennio, l’Unione europea – nonostante le sue pecche e divisioni – risultava comunque, in mancanza di altre presenze efficaci, uno dei protagonisti della politica planetaria. Ma nel mondo attuale la concorrenza geopolitica è esplosa e la Ue non può più beneficiare della precedente rendita di posizione. Da qui la penosa marginalizzazione a cui assistiamo e l’urgenza di porre rimedio a tutte quelle manchevolezze che in passato ci penalizzavano limitatamente, ma che ora ci pongono in una situazione di crescente, costante e preoccupante svantaggio.
La ragione fondamentale è che mentre il resto del mondo andava avanti e progrediva assai rapidamente, l’Unione europea negli ultimi venti anni è rimasta praticamente immobile
Una notevole parte di responsabilità ricade sulla Germania di Merkel, cullatasi in una deriva puramente “mercantilista” e attendista (in tedesco sarebbe addirittura divenuto gergale il verbo merkeln per indicare un’attitudine al rinvio e temporeggiamento!), anziché porsi come leader di uno sviluppo indirizzato ad accrescere e accelerare l’integrazione, soprattutto in materia di politica estera, difesa comune e governo dell’economia. Tutto ciò è infatti il presupposto essenziale per contare in un contesto mondiale in cui sta prevalendo il caos, definibile secondo alcuni come un mondo G-zero (data la sostanziale inefficacia dei meccanismi G2, G5, G7 e G20). Il portafoglio gonfio non basta più a condurre il gioco, dato che anche altri attori si sono arricchiti enormemente e in più hanno una strumentazione militare tempestivamente utilizzabile negli scacchieri di proprio interesse. L’Ue, come è stato giustamente notato, è sempre più un “payer” (aiuti umanitari, cooperazione allo sviluppo, ricostruzione di Paesi disastrati) anziché un “player”.
Ci sono poi anche altre ragioni che possono contribuire a spiegare il declino dell’influenza europea nella sfera politico-diplomatica. Anzitutto, la lentezza del processo decisionale all’interno delle istituzioni europee, appesantite dalla regola dell’unanimità, diventata ingestibile a seguito di un allargamento della Ue a volte troppo frettoloso e senza aggiustamenti dei metodi di votazione. Dopo lo scioccante massacro del 7 ottobre a opera di Hamas, la Ue ha discusso collettivamente la vicenda al Consiglio europeo del 26 ottobre, ben 19 giorni dopo l’accaduto! Tale vischiosità è tanto più esiziale, in un mondo che la tecnologia sta rendendo sempre più veloce, in quanto la Ue si trova di fronte a sistemi illiberali o dittatoriali che assumono decisioni dalla sera alla mattina, rimanendo pertanto in costante ritardo su tutto.
Va anche aggiunta la difficoltà della Ue e dei suoi Stati membri a sviluppare una visione di lungo termine, cioè strategica, ben presente invece ai capi dei regimi autocratici, che non hanno stretti limiti temporali di governo. Problema derivante, tra l’altro, dalla mancanza di rimedi adeguati a far fronte ad alcune disfunzionalità nei sistemi democratici (come ad esempio la eccessiva instabilità degli esecutivi, che impegna e distrae i leader in continue campagne per essere rieletti e provoca inevitabilmente frequenti cambi di posizioni politiche nazionali, poco compatibili con la possibilità di pianificare il futuro) .
Non va inoltre dimenticato l’approccio eccessivamente giuridico e scarsamente geopolitico del personale delle istituzioni europee, che ragiona in termini prevalentemente tecnico-burocratici. Per cui ci si concentra di più sulle questioni procedurali e sul linguaggio dei documenti anziché sul loro effettivo impatto sul mondo esterno, sconfinando a volte in un delirio auto-referenziale.
Anche l’uscita dalla Ue del Regno Unito a seguito della Brexit ha indebolito il prestigio e le potenzialità politiche dell’Unione, privandola di un Paese nucleare, con seggio permanente al Consiglio di Sicurezza dell’Onu e con influenza sugli Stati del Commonwealth. Oltretutto, la Gran Bretagna non manca di mostrare nei confronti della Ue uno spirito competitivo che talora rischia di sforare nella malevolenza. A questo va aggiunta l’illusorietà della speranza che l’uscita di Londra avrebbe permesso un rapido rilancio dell’integrazione europea in tema di politica estera e difesa comune. Ciò a causa della presenza nel continente di vari partiti sovranisti, ontologicamente diffidenti verso il concetto di un’Europa sovranazionale, di cui alcuni sono già al potere e altri in netta crescita (come l’emergente AfD in Germania, con frange che mostrano addirittura ammirazione per la Brexit).
Non sta poi giovando il ridimensionamento della classica postura di mediazione, dialogo e inclinazione al negoziato con i “nemici” tipico della Ue, anche a seguito della sua strisciante accondiscendenza nei confronti delle pulsioni “guerriere” di una parte dell’Occidente. Dopo la sciagurata denuncia del patto nucleare con l’Iran da parte degli Usa, la Ue ha praticamente rinunciato a tenere in vita una qualche forma di contatto significativo con Teheran. Persino la vicenda ucraina – che molti considerano come un caso positivo di politica estera comune europea – è letta da altri in maniera diversa, in quanto giudicano l’appiattimento dell’Europa sulle posizioni belliciste anglo-americane e polacco-baltiche come un rinnegamento della vocazione negoziale e mediatrice storicamente insita nel suo Dna. Con la conseguente rinuncia a un ruolo diplomatico efficace e l’esclusiva concentrazione sulla fornitura di armi agli ucraini, legittima e doverosa, ma sterile se priva di un obiettivo politico preciso e realistico. Si tratta di un mutamento che sta intaccando l’immagine pacifica, paziente e diplomatica che caratterizzava la Ue e che ispirava fiducia nella sua capacità di essere, insieme all’Onu, un “honest broker” per tutte le situazioni delicate nell’arena internazionale.
Nelle istituzioni Ue spesso arrivano esponenti non scelti in base alla competenza, bensì per il desiderio degli Stati di liberarsene in quanto non più funzionali alle dinamiche di politica interna
Secondo alcuni, anche il mancato accoglimento a suo tempo della Turchia nella Ue è stato un errore, dato che l’adesione di Ankara avrebbe consentito di prevenire la deriva autoritaria, neo-ottomana e islamista realizzata da Erdogan, facendole invece svolgere un cruciale ruolo di ponte con tutto il mondo musulmano.
Non vanno infine sottovalutate le carenze qualitative del gruppo dirigente attuale (a fronte di personaggi del passato come Jacques Delors, Javier Solana e Romano Prodi), caratterizzato tra l’altro da una crescente incapacità di comunicare in maniera appropriata verso il mondo esterno. Basti pensare ai recenti fatti in Medioriente. La presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen si è subito acriticamente schierata a fianco di Tel Aviv senza consultare nessuno. Il presidente del Consiglio Charles Michel e l’alto rappresentante per gli Affari esteri e la Politica di sicurezza Josep Borrell si sono goffamente industriati per cercare di correggere il tiro e dare un’immagine più equilibrata. Il commissario per l’Allargamento e la Politica di vicinato Olivér Vàrhelyi ha fatto un’inopinata dichiarazione a caldo – poi subito smentita – sull’intenzione di bloccare qualsiasi aiuto nei confronti dei palestinesi. Siamo al dilettantismo geopolitico. È vero che si tratta di un fenomeno più generale, soprattutto in Occidente (da Kennedy si è arrivati a Trump, da John Major a Boris Johnson e Rishi Sunak, da Helmut Kohl a Olaf Scholz), ma nelle istituzioni Ue è particolarmente drammatico, perché spesso arrivano esponenti non scelti in base alla competenza e al carisma, bensì per il desiderio degli Stati membri di liberarsene in quanto non più funzionali alle dinamiche di politica interna.
Di fronte a tale quadro, esiste un margine di recupero? Certamente sì, ma presuppone una chiara consapevolezza dei problemi e una decisa volontà politica di correre ai ripari il più velocemente possibile. Il discorso è complesso, ma in estrema sintesi si può dire che il rimedio principale sarebbe l’avvio immediato di almeno tre meccanismi di cooperazione rafforzata tra gruppi di Stati membri dell’Ue, rispettivamente per la realizzazione di una politica estera comune basata sulla regola della maggioranza anziché dell’unanimità, per la costruzione di una difesa europea e per l’istituzione di un ministero europeo dell’Economia (come si è fatto del resto con la moneta unica e con Schengen). Col tempo, altri Stati membri potranno unirsi a tali gruppi originari: è l’unico modo per riavviare un cammino di integrazione che si è fermato a metà e che se restasse tale rischierebbe un giorno – soprattutto nel caso di un ritorno alla Casa Bianca dell’isolazionista Trump – di mettere l’Ue di fronte alla Cina nella scomoda posizione di sottomissione in cui si trovò la Grecia rispetto all’Impero Romano, con gli europei condannati a un ruolo ancillare (stimati, ma deboli, precettori dei rampolli delle ricche famiglie cinesi?).
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