Nella decisione di far convergere il voto del Conclave su Bergoglio il tema della riforma della Curia ha giocato sicuramente un ruolo rilevante. Il percorso intrapreso da papa Francesco per rispondere a questo preciso mandato si è rivelato essere più articolato rispetto a quelle che potevano essere le attese del momento: certo per l’esigenza di dare prima profilo alla propria comprensione del ministero petrino e, conseguentemente, lasciar emergere l’immagine della Chiesa cattolica di cui la Curia romana deve essere coerente strumento di servizio. Mettere mano a quest’ultima in forma previa alla prima avrebbe voluto dire produrre una sorta di artefatto costituzionale senza alcun radicamento nella realtà, con il rischio altamente probabile di perpetuare un movimento auto-referenziale della Curia stessa. Movimento che aveva di fatto condotto a una ridislocazione del potere nella Chiesa, rispetto al papato stesso, e a una sua indebita concentrazione impermeabile a ogni rivendicazione di diritto da parte delle Chiese locali.
Ora la riforma della Chiesa cattolica, concentrata sul recupero dell’immaginario evangelico del cristianesimo, quale permanente criterio di ogni sua attuazione, è principio ben stabilito per mano dello stesso vescovo di Roma. Questo non senza resistenze, più o meno palesi e leali, all’interno della Curia, di un certo ceto dell’episcopato e del clero, e in alcune aree ben precise del cattolicesimo in un qualche modo di derivazione prevalentemente occidentale. La prima novità in merito, introdotta da Francesco, è stata quella di non sbarazzarsi in maniera autoritaria di queste forme di opposizione. Esse sono state onorate ben più di quanto siano pronte a concedere in futuro agli altri, pensando Francesco come una sfortunata parentesi da chiudere il più presto possibile attendendo che la natura faccia il suo corso. Gesto, questo di Francesco, che ha saputo rigenerare uno spazio andato oramai smarrito non solo nella Chiesa cattolica: quello per una reale opinione pubblica, dove ognuno può dare ragione di sé e delle proprie persuasioni in forma argomentata e costruttiva. Che poi molti, ovunque essi si collochino, vadano avanti seguendo logiche più perverse della distribuzione del potere di parola, dice di più della loro immaturità e della scarsa qualità umana che il cattolicesimo ha prodotto nelle sue fila nell’arco degli ultimi quarant’anni.
Debito questo che grava sull’immaginario di una riforma evangelica della Chiesa perseguito da Francesco, non fosse altro perché il personale in grado di portarla avanti con coerenza e competenza scarseggia ben oltre il limite minimo necessario. Ma questa è la realtà della Chiesa cattolica oggi, ed è da essa che si devono trarre le risorse migliori per ridisegnarla all’altezza del compito di darle un futuro che non sia quello di una setta elitaria o di un’alcova di briganti. Il primo passo compiuto da Francesco è stato quello di ridare autorevolezza e potestà alle Chiese locali, nella convinzione che solo in tal modo si potesse creare un bilanciamento a venire, capace di opporsi a un risucchio di tutto il potere nella centralizzazione curiale del cattolicesimo – con vescovi ridotti a essere pavidi servitori di semplici ufficiali della Curia. Inoltre, e questo è fatto ben più importante, Francesco ha permesso il sorgere di un sentimento di riappropriazione della Chiesa cattolica da parte di ogni singolo fedele, riconoscendo a ogni vissuto cristiano un profilo discepolare imprescindibile per la Chiesa tutta.
Riconsegnare la Chiesa cattolica alla fede di tutti era il passaggio previo a ogni tentativo di riforma della Curia; che ha preso le mosse attraverso una serie di aggiustamenti e ricalibrazioni pratiche, sulle quali innestare poi passi più marcatamente strutturali. Ed è questa la condizione in cui ci troviamo oggi, dopo il terzo discorso di auguri natalizi di Francesco alla Curia romana (22 dicembre 2016), in cui ha elencato dodici criteri e i diciotto documenti operativi per una riorganizzazione in atto dello strumento curiale. Due i capisaldi che Francesco ha ben presenti: l’istituzione è un ministero a servizio del vissuto concreto della fede, da un lato; l’istituzione è necessaria per garantire una riforma evangelica del cattolicesimo oltre di lui, d’altro lato. La corretta articolazione di questi due momenti è tutt’altro che facile – per Francesco stesso che, probabilmente, sente più proprio il primo ma ben comprende l’importanza del secondo. Per avere una Chiesa come desidera lui è necessario operare affinché essa possa essere effettivamente tale anche senza di lui. Solo così la storia non lo rubricherà come la luminosa parentesi di una Chiesa sorprendentemente aderente all’Evangelo di Gesù. Il rispetto mostrato da Francesco per chi la pensa altrimenti è una pagina indelebile nella millenaria storia del cattolicesimo, come è altamente probabile che non si possa più semplicemente tornare a una configurazione previa alla sua elezione a vescovo di Roma.
Ma questa semplice inerzia non sarebbe in grado di onorare il suo desiderio sulla Chiesa tutta. Il discernimento conosce i suoi tempi, ma ha anche la sapienza di condurre a decisioni effettive – di questo vive e si nutre la spiritualità ignaziana. Il primato di una conversione nelle persone, al posto di una mera funzionalità burocratica che si garantisce il proprio potere appaltando a delfini ossequiosi i ruoli cardine, era teso al recupero delle forze migliori di cui dispone la Chiesa: mettendo ciascuno davanti al Vangelo e alla propria coscienza. Discernimento e conversione sono stati il percorso lungo intrapreso da Francesco per mettere mano a una riforma evangelica della Chiesa cattolica e della stessa Curia romana. Il tempo delle decisioni è stato preparato a dovere, mancarne l’opportunità vorrebbe dire ridurre a idea una realtà che Francesco ha fatto gustare non solo ai discepoli e alle discepole del Signore, ma a ogni fragilità umana che tutti prima o poi conoscono nella loro stessa carne. La cura per l’umano che è di tutti noi passa, oggi, anche attraverso le scelte istituzionali di una particolare comunità di fede – affidata al desiderio affettuoso di un vecchio gesuita chiamato a tenere in mano la barra del timone della barca di Pietro nelle acque tempestose del nostro tempo.
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