Nelle scorse settimane la riforma del catasto ha riacceso il dibattito politico, culminato qualche giorno fa, quando il disegno di legge delega sulla riforma fiscale ha contemplato la possibilità di affiancare, agli attuali valori delle rendite catastali, quelli aggiornati in base ai valori di mercato, almeno ai fini di studio. Un primo passo, molto timido, necessario per evitare eccessive tensioni politiche. Analizziamo più nel dettaglio i motivi per cui una rivisitazione del catasto fa così tanto scalpore nel dibattito politico e tecnico e, soprattutto, nell’opinione pubblica.
C’è da sottolineare innanzitutto che riformare il nostro catasto, ormai troppo datato, è un argomento; la rivisitazione delle imposte sul comparto immobiliare, che si basano sulle risultanze catastali, è un altro. Riformare il catasto vuol dire prendere atto che gli attuali valori di rendita catastale sono, da una parte, enormemente sottostimati e, dall’altra, fonte di forti iniquità orizzontali (ovvero considerando immobili di pregio simile) e verticali (considerando cioè immobili di pregio differente).
Il nostro sistema catastale nasce per determinare e tassare le rendite, ovvero il reddito medio ordinario fruibile da una unità abitativa. Oggi invece il nostro sistema tributario è ispirato all’imposizione dei singoli valori patrimoniali (si ricorda infatti che nel nostro ordinamento non esiste una imposta onnicomprensiva sul patrimonio, ma una imposta che grava sui singoli cespiti) e dei trasferimenti di patrimoni. Questo cambiamento è sorto con l’introduzione dell’Ici, oggi Imu. Il valore della base imponibile per queste imposte è determinato ipotizzando una rendita perpetua del valore della rendita catastale ad un determinato tasso di sconto. In origine il tasso di sconto previsto era stato fissato all’1% (per gli immobili del gruppo catastale A, ovvero le case comunemente intese; valori differenti erano previsti per gli altri gruppi catastali), da cui derivava il fattore moltiplicativo pari a 100 per passare dal valore della rendita catastale a quello della base imponibile Ici. Il governo Monti aveva scelto di ridurre il tasso di sconto, portandolo allo 0,625%, da cui deriva il fattore moltiplicativo pari a 160 oggi applicato. Fin qui nulla di strano. Lo diventa però se consideriamo che le rendite catastali (e i corrispondenti valori patrimoniali) sono oggi fortemente sottostimate e non più in grado di rispecchiare il diverso reddito medio fruibile da abitazioni di diverso pregio. Analogamente, nel corso del tempo, i valori di reddito e i valori di mercato degli immobili hanno subito dinamiche non coincidenti, per cui la formula della rendita perpetua prima citata non comporta più una corretta valutazione delle posizioni relative tra immobili di pregio simile o diverso. Il passaggio del fattore moltiplicativo da 100 a 160, in quanto automatico e applicato a tutti, non ha potuto tenere in considerazione questi aspetti.
Le rendite catastali (e i corrispondenti valori patrimoniali) sono oggi fortemente sottostimate e non più in grado di rispecchiare il diverso reddito medio fruibile da abitazioni di diverso pregio
In questo senso le problematiche sono tante. La rendita catastale dovrebbe rispecchiare il canone di locazione che un proprietario potrebbe ricevere qualora decidesse di cedere in locazione la sua abitazione, il cosiddetto «affitto» imputato. In media, la rendita catastale è, oggi, pari a circa il 10-15% dell’«affitto» imputato. Questa grande diversità dipende dall’arretratezza, in media, del nostro catasto. Un discorso analogo vale per le altre tipologie di immobili. Un primo problema deriva dal fatto che la rendita catastale è determinata moltiplicando una tariffa d’estimo per la consistenza dell’immobile, valutata in vani dall’attuale catasto. Per questo si spera che prima o poi si passi a considerare la consistenza di un immobile valutato in metri quadrati. Quello che oggi preoccupa prioritariamente non è soltanto la sottovalutazione di questi valori, ma i disallineamenti relativi dei valori reddituali e patrimoniali avvenuti nel tempo. L’attuale sistema catastale, in assenza di revisioni e di una modalità di classamento coerente con le effettive caratteristiche dell’immobile, è dunque fonte di forti disparità sia «verticali» sia «orizzontali». Ci sono molti casi in cui un piccolo appartamento in periferia di una grande città ha una rendita perfino maggiore di quella attribuita a un immobile di dimensioni più grandi e più prestigioso situato nel pieno centro storico. Sempre su questo tema, è possibile che appartamenti situati nel medesimo stabile siano accatastati in categorie differenti, cosa che è quanto meno strana. Non del tutto: un sistema molto datato, a cui sono state apportate modifiche nel corso del tempo, ha determinato una distribuzione delle rendite che oggi può essere, in alcuni casi, considerata del tutto casuale. Salta poi all’occhio che, oggi, quasi tre quarti degli immobili del gruppo A, esclusi gli A/10 (gli uffici), sono accatastati come A/2 o A/3, mentre le altre categorie catastali rappresentano una quota minoritaria, nonostante non dovrebbe essere così guardando l’effettivo pregio degli immobili. Le conseguenze di efficienza e di equità di questa concentrazione degli appartamenti nelle due categorie prima menzionate è oggi ancora più accentuato, quando, pur non essendo, in generale, applicata l’imposizione sull’abitazione di residenza, lo è per gli immobili «storicamente» categorizzati come «di lusso», ovvero gli A/1, gli A/8 e gli A/9.
L’attuale sistema catastale, in assenza di revisioni e di una modalità di classamento coerente con le effettive caratteristiche dell’immobile, è fonte di forti disparità sia “verticali” sia “orizzontali”
Fino a questo punto abbiamo sottolineato i problemi relativi alla revisione dei valori catastali, cosa diversa dall’applicazione di una imposta che usa questi valori. Riformare il catasto non necessariamente implica un aggravio di imposta in questo comparto di imposizione. Questo è però il timore più diffuso. La giustificazione va ricercata nell’elevata quota di famiglie proprietarie dell’immobile di residenza, nel non esiguo numero di famiglie proprietarie di altri immobili e nel fatto che le famiglie italiane tendono ad essere mediamente cash-poor e asset-rich. Ma si potrebbe ragionevolmente argomentare che, proprio perché le proprietà immobiliari sono così diffuse, il sistema catastale deve essere strutturato bene.
Su questo punto il disegno di legge delega approvato dal Consiglio dei ministri toglie ogni dubbio: si prevede infatti di affiancare, ai valori delle rendite catastali oggi utilizzate, quelli dell’affitto imputato (parte reddituale) e quelli di mercato dell’immobile (parte patrimoniale) che però non saranno utilizzati se non per analisi statistiche. Da una parte è vero che, dal punto di vista tecnico, la riforma del catasto necessita di tempo per la sua implementazione; dall’altra, sembra che il governo voglia rassicurare il sistema politico che la sua implementazione non sarà mai applicata. Si apre però uno spiraglio: nella prossima legislatura uno strumento pronto per l’uso sarà disponibile. Si vuole probabilmente dare ai partiti il tempo di «digerire» la nuova (e corretta) modalità di classamento degli immobili: studiando l’impatto del «vecchio» e del «nuovo» sistema sarà possibile valutare gli effetti di una ipotetica revisione delle imposte sugli immobili. Su un punto il disegno di legge delega sembra invece intenzionato a intervenire senza indugio: è il caso degli immobili fantasma e di quelli presenti in catasto ma non dichiarati ai fini reddituali. Difficile sostenere che non sia una proposta di buon senso.
Non è quindi detto che, ceteris paribus, applicando concretamente i valori catastali aggiornati la conseguenza diretta sia un aumento del gettito derivante dagli immobili: questa è una scelta politica. È sicuramente evidente che, rivedendo i valori catastali, dovranno essere riviste al ribasso le aliquote: a parità di aliquote, con una base imponibile sensibilmente maggiore rispetto a oggi si determinerebbe un aumento molto alto del gettito. Ragionando a parità di gettito, è ugualmente certo che si verificherebbero due tipi di redistribuzioni: fra Comuni, perché rispetto a oggi cambierebbe la distribuzione dei valori, e fra contribuenti. Quest’ultimo aspetto non deve essere un freno per ogni riforma, per due motivi: non si possono pensare solo riforme che sempre e comunque riducono le imposte per tutti; se la revisione dei valori catastali dovesse comportare aggravi per qualcuno, evidentemente è perché egli è stato avvantaggiato in passato, rispetto ad altri, da un catasto non aggiornato. E, per la stessa ragione, qualcuno pagherà meno di prima. In particolare, è noto che l’attuale catasto tende ad avvantaggiare soprattutto le abitazioni nelle zone centrali delle grandi città (perché accatastate prima) rispetto a quelle in periferia (accatastate più di recente), inducendo dunque una sorta di redistribuzione alla rovescia, da chi ha meno disponibilità di reddito (che vive prevalentemente in periferia) a chi ne ha di più e vive in centro. Al massimo la riforma cambierà la distribuzione temporale dell’onere dell’imposta per i singoli contribuenti.
Non si possono pensare solo riforme che sempre e comunque riducono le imposte per tutti; se la revisione dei valori catastali dovesse comportare aggravi per qualcuno, evidentemente è perché egli è stato avvantaggiato in passato, rispetto ad altri, da un catasto non aggiornato
Per concludere, è possibile ipotizzare qualche ragionamento ulteriore. Come è noto, oggi l’Italia è uno dei pochi Paesi al mondo a non avere una imposta sulle abitazioni di residenza. Per il fisco esse sono 19,5 milioni (anche se esiste una non piccola elusione), il 56% di tutte le abitazioni del gruppo A e il 30% di tutti gli immobili. Si tratta di un nodo politico particolarmente rilevante. Poiché la delega fiscale prevede di ridurre le imposte sul lavoro (e sulle imprese attraverso l’eliminazione dell’Irap), e considerando che tutta la riforma va pensata a parità di gettito o poco meno, l’unica via per finanziare la riduzione del costo dei fattori produttivi è intervenire aumentando altre imposte, attraverso la revisione delle deduzioni e detrazioni per oneri in sede Irpef, la rivisitazione dell’imposizione indiretta e, appunto, la revisione delle imposte sugli immobili. Quindi, ricapitolando: la riforma del catasto è innocua rispetto alle imposte che utilizzano questa base imponibile. Volendo riformare tutto il sistema, è possibile che in futuro si possano pagare meno imposte sul lavoro e più imposte sui consumi e sugli immobili anche al fine di incentivare la crescita. Ma questa, ovviamente, resta una scelta politica.
[L'articolo deve molto alle riflessioni condotte con Silvia Giannini e Massimo Baldini, che hanno dato origine a un altro intervento sullo stesso tema].
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