Questo articolo fa parte dello speciale La guerra in Ucraina
Tra gli interventi che nella stampa quotidiana (ma non solo) hanno affrontato la questione dell'opportunità e della legittimità della resistenza ucraina, nonché dell'opportunità e della legittimità degli aiuti armati da prestare, quelli di Vito Mancuso e Luigi Manconi ne hanno trattato rispettivamente come problema di coscienza morale e come problema etico. Nell’articolo Sono contrario alla guerra ma le armi vanno inviate, Mancuso dichiara di essere a favore dell’invio delle armi, ritenendo che sia necessario ascoltare l’appello dell’Ucraina e non lasciarla sola. È il rischio della coscienza morale da assumersi, nonostante la complessità della situazione.
Luigi Manconi, nel suo Perché la resistenza armata è etica, sottolinea chiaramente come la congiuntura attuale sia quella dell'invasione di conquista dell’Ucraina da parte dell’armata imperiale russa. Facendo esplicito riferimento a un argomento decisivo nell’articolo di Mancuso, Manconi ritiene che non ci si possa sottrarre al dilemma ineludibile se gli “uomini caritatevoli” – in base all’apologo del Mahatma Ghandi –debbano uccidere l’uomo che uccide con la sua spada chiunque incontri sul suo cammino. Coscienza morale in atto ed etica della charitas sono, d’altra parte, problemi antichi e sempiterni per popoli che resistono a un’invasione e per quanti sono chiamati di aiutarli.
Coscienza morale ed etica della charitas sono problemi antichi e sempiterni per popoli che resistono a un’invasione e per quanti sono chiamati di aiutarli
E benché il mondo cambi in continuazione, alcuni esempi storici di un passato molto lontano possono forse fornire qualche sostegno alle argomentazioni di Mancuso (anche quelle del più recente intervento Vale di più la vita o la libertà? La guerra costringe a scegliere) e di Manconi.
Un primo esempio riporta agli inizi del Trecento, quando l’imperatore tedesco Enrico VII (l’Arrigo VII di Dante) scende in Italia con il suo esercito, come di consueto dopo l'elezione in Germania, al fine di essere riconosciuto dal papa (allora Clemente V) con la cerimonia dell’incoronazione. È il 1310 e tutte le diverse città italiane che l’imperatore deve attraversare nel suo viaggio verso Roma sono, al momento, o prevalentemente ghibelline (filoimperiali) o prevalentemente guelfe (filopapali), ovvero divise al loro interno tra le due fazioni. Alcune città guelfe si accordano per costituirsi in lega, per poter meglio difendere la loro sicurezza: Bologna, Firenze, Lucca, Siena, Prato e S. Gimignano. Quando Enrico VII arriva in Italia, a Susa (Piemonte), nell’ottobre del 1310, altre città guelfe gli si oppongono, nel timore che l’imperatore appoggi le fazioni guelfe che vogliono riprendere il potere. Le prime a opporsi sono Brescia e Cremona. L’imperatore dichiara ribelli le città e tutti i loro abitanti. Li punisce molto duramente e ordina che mura, torri delle mura e porte delle città debbano essere totalmente distrutte a spese dei cittadini, e mai più costruite se non con il suo permesso. Le città vengono private del loro governo. Nessuno può prestare aiuto alle città condannate, se non incorrendo nelle stesse punizioni.
Di fronte a questo, anche altre città e cittadini guelfi resistono – pure dopo che l’imperatore è stato incoronato dai cardinali alla fine di giugno del 1312 –, spinti dall’assedio portato da Enrico VII a Firenze. Si appellano al papa, volendo dimostrare, sorretti dai pareri di noti giuristi e teologi, di non essere affatto ribelli, ma di resistere in modo del tutto lecito. Posti di fronte al problema, giuristi e teologi sostengono che se l’imperatore opprime i suoi sudditi (Enrico VII reputa le città sue suddite), questi ultimi possono lecitamente resistere anche con le armi per difendersi, dal momento che è l’imperatore a invadere le città e i cittadini e a fare loro guerra (e non il contrario).
Giuristi e teologi sostengono che se l’imperatore li opprime, i suoi sudditi possono lecitamente resistere anche con le armi per difendersi, dal momento che è l’imperatore a invadere le città e i cittadini e a fare loro guerra (e non il contrario)
Un secondo esempio è costituito dalla riflessione di un noto giurista umanista francese, vissuto tra la fine del Quattrocento e la prima metà del Cinquecento, André Tiraqueau (1480-1558): una riflessione di carattere generale, sviluppata anche sulla base di casi particolari. Se si considerano gli affetti umani, gli affetti dell'amicizia e della vicinanza (vicinitas) possono portare, nella pratica, a difendere amici e vicini, resistendo a chiunque faccia loro violenza, sia nella persona sia nelle cose.
Un terzo esempio viene dal periodo delle guerre di religione e delle guerre civili che, nella Francia della seconda metà del Cinquecento, oppongono cattolici e ugonotti (i calvinisti francesi), soprattutto dopo il noto massacro della notte di San Bartolomeo (1572). Tra gli ugonotti che non solo a Parigi, ma in tutta la Francia, sono stati massacrati dalla parte cattolica capeggiata dai Guisa, si pone con urgenza un problema. Dato che la città ugonotta La Rochelle è assediata dalle truppe cattoliche dei Guisa, i suoi abitanti possono rivendicare la loro libertà? Possono recuperarla sottraendosi alla monarchia francese?
Il grande giurista ugonotto François Hotman sottopone il problema all’autorevole teologo Heinrich Bullinger. Per Bullinger è difficile decidere in coscienza nel merito. Teme che un suo consiglio azzardato lo possa rendere responsabile del massacro di molti uomini. Hotman risolve allora il problema utilizzando il commento di un altro grande teologo (già morto), Pietro Martire Vermigli, ad alcuni passi del Vecchio Testamento. Durante le sue lezioni all’università di Zurigo, nel 1562, Vermigli aveva commentato 2 Re 8,22, dove la città di Libna (o Lobna) resiste all’empio Ioram e si sottrae al suo dominio. Per Hotman La Rochelle deve fare come Libna e recuperare la sua libertà. Per difendere la vita dei suoi abitanti. Da allora in poi la resistenza di Libna viene utilizzata come esempio in altri casi, anche in Inghilterra e in Scozia, fino almeno alla fine del Seicento.
Un quarto esempio, veramente trans-epocale, è sempre tratto dalle storie del Vecchio Testamento e utilizzato in ogni parte d’Europa, senza confini spaziali, e nelle più diverse situazioni di conflitti politici: quello dei Maccabei, il popolo che resiste al re Antioco (Maccabei, 2, 4). Uno tra i tanti casi: durante la Guerra dei Trent’anni (1618-1648) la Catalogna, oppressa dal conte-duca Olivares e invasa dal suo esercito, resiste con le armi. I politici e i teologi che nel 1640 giustificano la resistenza lo fanno anche in base alle leggi e al tribunale della coscienza. Si appellano al mondo intero, chiedendo quell’aiuto che deve essere prestato per i precetti della charitas, cioè della fraternità, e perché per i Catalani oppressi si riapra la porta della giustizia (altra immagine vetero-testamentaria).
Il caso catalano porta direttamente al contesto più generale della Guerra dei Trent’anni, anche per il peculiare ruolo svolto da forme diverse di propaganda politica: scritti, certo, ma pure – e in modo totalmente nuovo – immagini di "guerra ai civili" e di città martiri.
Nel 1633 un noto incisore francese, Jacques Callot, dà alle stampe una significativa e suggestiva serie di immagini: Les misères et les mal-heures de la guerre, note anche come Les grand misères de la guerre. A tali incisioni, ampiamente diffuse all’epoca, sono stati dedicati numerosi studi, tra i quali – ormai più di cinquanta anni fa – il libro postumo del grande storico del cinema e critico cinematografico francese Georges Sadoul, Jacques Callot miroir de son temps (1969), che forse varrebbe la pena di rileggere oggi.
Specchi del tempo della Guerra dei Trent’anni sono anche le numerose incisioni su rame, riprodotte in fogli volanti e gazzette alquanto venduti. Durante la Seconda guerra mondiale Elmer A. Beller ne pubblicò un certo numero con il titolo Propaganda in Germany during the Thirty Years War (Princeton, 1940), dedicandolo all’amico Erwin Panofsky. Tra le immagini di città martiri, quella della distruzione di Magdeburgo nel maggio del 1631. Un evento epocale, che poi alcuni storici hanno paragonato alla Stalingrado del 1943.
Numerosi altri esempi si potrebbero presentare in tema di guerre di invasione e di resistenze. Per questo, all’invito rivolto dalla filosofa Donatella Di Cesare (Pace, Putin e Occidente. Il mio diverso parere) a esercitare il pensiero e, tra l’altro, a non confondere «il valore generico del verbo “resistere” con il significato politico della Resistenza italiana. Altrimenti in tutte le innumerevoli guerre di invasione europee ci sarebbero stati i cosiddetti resistenti», si può rispondere con gli esempi storici sopra riportati e, riguardo in specifico la Resistenza italiana, ricordando che il martirio dei fratelli Cervi non a caso è stato paragonato dalla storiografia ai fratelli Maccabei.
Al resistere per coscienza e per etica, come richiamato da Vito Mancuso e da Luigi Manconi, si può ora aggiungere ciò che la psicanalisi definisce «forza del desiderio», come sottolineato qualche giorno fa da Massimo Recalcati (La sinistra divisa e il pacifismo. Le incrostazioni dei “né” “né”, «la Repubblica», 19.03.2022), appoggiandosi a un ritratto mitico. Quello, appunto, biblico di Davide che sfida il gigante filisteo Golia: e se Golia si rivolge a Davide con un gergo prossimo alla più recente retorica putiniana, «Davide non arretra, né si lascia intimorire. E non sarà solo la scelta tattica della fionda a determinarne la vittoria».
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