Le manifestazioni pubbliche, le folle e i giovani che riempiono le piazze delle nostre città in segno di protesta civile contro reati e delitti di mafia non possono che colmare il nostro animo di speranza, in particolare quando dietro di loro sta un impegno concreto per il riscatto dei beni sottratti alla collettività dalla mafia e recuperati invece al servizio pubblico. Ma proprio questa maturazione della coscienza nazionale e giovanile sul tema della mafia può ora consentirci di compiere un passo avanti. Non dobbiamo limitarci alla denuncia dei crimini mafiosi e delle complicità dei detentori del potere, politico o economico come se in fondo questi fossero fenomeni estranei, diavoli che possiamo respingere con esorcismi, con discorsi in piazza e lenzuoli bianchi o chiedendo leggi su leggi, nuove, ulteriori commissioni per la repressione della corruzione.
Tutto ciò, naturalmente, è necessario; e la nostra gratitudine verso tutti i volontari che si impegnano in questa lotta contro il potere mafioso e le sue collusioni è enorme. Ma non vorremmo che distogliesse dall’impegno personale a combattere comportamenti che sono dentro di noi e che si aggravano in questa situazione di disordine, resa tragica dalla crisi economica e dal malessere sociale.
Il vero e profondo terreno di cultura dei comportamenti mafiosi è la raccomandazione, particolarmente forte nel nostro Paese, a sostituire nella vita quotidiana la regola pubblica con l’affermazione dell’interesse privato tramite legami di famiglia, di clan, di Paese, di chiesa. A mio avviso è questo il vero terreno, il vero brodo in cui cresce la mafia, che non è estraneo ma spesso interno anche a chi protesta nelle piazze contro la mafia.
Così, rispetto ai nostri comportamenti quotidiani, anche tutti i discorsi sulla “legittimità” diventano ambigui. Un esempio concreto. Quando dagli Stati Uniti o dall’Inghilterra un candidato a un concorso o la stessa università che ha bandito il concorso mi chiedono un attestato sulle qualità del candidato rispetto al posto che dovrebbe ricoprire io rispondo mettendo in gioco con la mia testimonianza la mia stessa figura di ricercatore e di docente; in Italia, una lettera scritta più o meno con analoghe parole viene interpretata come raccomandazione e giudicata espressione di una classe accademica corrotta che protegge i propri interessi. Il problema è reale: perché in questo caso si sospetta una contropartita in favori anche immateriali, di aumento del proprio potere e della propria influenza da parte di chi scrive, senza tenere in alcun conto gli scopi che ci possono e devono essere in ogni docente che si definisca tale di promuovere i propri allievi e la propria scuola.
In tale situazione, la reazione dell’opinione pubblica, dei media e della classe politica (di sempre più basso livello culturale e giuridico rispetto a qualche decennio fa) è quella di chiedere sempre più norme burocratiche e repressive; norme che non fanno che aggravare la situazione. Pensiamo all’inefficacia e addirittura al danno che provocano i certificati antimafia nelle gare d’appalto e in tutti gli aspetti della vita associata con l’irrigidimento dei comportamenti e la lesione dei processi di innovazione e concorrenza: stiamo consegnando sempre più il Paese non solo alla magistratura e ai tribunali amministrativi previsti dalla Costituzione, ma anche all’alta burocrazia e ad authorities assolutamente irresponsabili. Una specie di political correct esteso a tutta la nostra vita quotidiana finisce per favorire la corruzione, come vediamo in questi giorni con arresti di personaggi i cui uffici di certificati anti-mafia sono pieni.
Vorrei quindi che si cominciasse a chiedere ai giovani che riempiono anche in questi giorni le nostre città e le nostre piazze di partire dai loro stessi comportamenti quotidiani e di non vedere la mafia come un fenomeno tanto orrendo da essere estraneo a noi nel tempo e nello spazio. Come certi romanzi e certe fiction televisive tanto esaltati lasciano invece intendere.
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