Giallo, verde, rosa, azzurro. Non è purtroppo un arcobaleno di speranza. Ma di crisi e di protesta. Sono questi, infatti, i colori dei grembiuli da lavoro che sono stati appesi ai cancelli dell’azienda tessile In.Co. di Sarmeola di Rubano (Padova) dalle sue 230 lavoratrici, protagoniste di una crisi aziendale dai tratti singolari. Potrebbe essere catalogata come una storia di ordinaria delocalizzazione,una di quelle storie che hanno riempito le pagine della cronaca a partire dagli anni Novanta: un’azienda manifatturiera che per ottimizzare i costi di produzione decide di chiudere e di spostare i propri stabilimenti produttivi in Paesi come la Cina, la Polonia, la Repubblica Ceca, l’Indonesia. Questa volta, invece, siamo di fronte a una delocalizzazione singolare e tutta nazionale: a fronte dell’ipotesi della chiusura dello storico stabilimento in provincia di Padova è stato infatti recentemente proposto alle lavoratrici il trasferimento presso altre sedi del gruppo: Novara, Biella o Parma.

Ma andiamo con ordine, per tratteggiare una vicenda che ci ricorda che accanto ai timidi segnali di ripresa e a un contesto macroeconomico in miglioramento, il nostro Paese deve fare ancora i conti con crisi aziendali, cassa integrazione e disoccupazione. Nel 1996 il gruppo Zegna, tramite la propria controllata In.Co., rileva lo stabilimento GVal di Rubano, un’azienda nata negli anni Cinquanta, per moltissimi anni fiore all’occhiello del made in Italy e punto di riferimento a livello nazionale e internazionale nella produzione di abiti di alta gamma. Nel corso degli anni lo stabilimento di Rubano si specializza nella produzione di capispalla maschili. Al suo interno le maestranze sono costituite prevalentemente da lavoratrici: mani esperte che garantiscono quella qualità, attenzione ai particolari e competenze che tutto il mondo ci invidia. Nonostante la lunga crisi che ha colpito il nostro Paese, il gruppo Zegna, grazie al presidio del canale retail e di negozi monomarca presenti in tutto il mondo consolida la sua posizione. Non solo presentando lusinghieri risultati dal punto di vista del bilancio (il fatturato 2013 è stato pari a 1,2 miliardi di euro, Ebitda pari a 256,8 milioni di euro e un utile pari a 116,3 milioni di euro), ma anche garantendo investimenti per rafforzare il controllo della filiera con la realizzazione del nuovo polo in provincia di Novara per l’abbigliamento formale e quello dedicato alla pelletteria e alla calzatura a Parma. Risultati di cui certamente l’azienda, ma anche l’intero sistema Paese deve andare orgoglioso. Ma il rafforzamento della propria leadership globale passa anche attraverso una strategica riorganizzazione industriale che, come illustra il caso In.Co., rischia di generare pesanti ricadute a livello locale.

A fine marzo, durante una riunione tra la direzione e le rappresentanze sindacali, è stato annunciato non solo il ricorso alla cassa integrazione guadagni per quattro giorni alla settimana, ma è stata anche ventilata l’ipotesi di chiudere lo stabilimento offrendo alle lavoratrici una serie di incentivi per trasferirsi negli altri stabilimenti del gruppo, mediamente a 300 o 400 chilometri di distanza. “I cambiamenti intervenuti nel modo di vestire maschile, sempre meno formale, in mercati strategici come quelli cinese e russo – si legge nel comunicato dell’azienda – hanno trovato ulteriore conferma nell’ultima campagna vendite, con cali degli ordinativi di capispalla non prevedibili in tale portata. A Sarmela, dove si producono capispalla, componente essenziale dell’abbigliamento formale, nella continua speranza di un’ inversione di trend che non però non c’è stata sono state prese, negli ultimi anni, varie misure per salvaguardare i livelli di occupazione. La produzione si è assestata sui 120 capospalla al giorno, contro il minimo richiesto di 300 per arrivare a un accettabile livello di efficienza industriale”. La proposta dell’azienda è dunque quella di chiudere lo stabilimento padovano e riassorbire la manodopera negli altri stabilimenti del gruppo specializzati nello sportwear, maglieria, abbigliamento in pelle, cinture e calzature. La reazione delle lavoratrici e dei sindacati (Femca Cisl e Filctem Cgil) è stata durissima lamentando non solo che la decisione è arrivata come un fulmine a ciel (quasi) sereno, ma anche affermando che nessuna lavoratrice è disposta a trasferirsi in località così distanti. Si tratta, sostengono i sindacati, di madri di famiglia, con figli a carico e genitori anziani da accudire. La protesta dei grembiuli colorati è stata immediatamente accompagnata dal coinvolgimento delle istituzioni: un primo tavolo di confronto è stato attivato dal sindaco di Rubano, Sabrina Doni. Anche la Regione Veneto, su sollecitazione del consigliere regionale Piero Ruzzante, ha ricevuto sia l’azienda sia i rappresentanti sindacali. La questione è persino arrivata sulla scrivania di Federica Guidi, ministro dello Sviluppo economico, grazie a un’interrogazione urgente presentata dai senatori democratici Giorgio Santini e Gianpiero Dalla Zuanna. “È necessario scongiurare la chiusura di questo stabilimento storico della manifattura padovana – ha affermato Santini. Un luogo dove vengono realizzati capi di qualità e che siamo in grado di esportare con successo all’estero. Ma la cosa che ci preoccupa maggiormente è il destino di 230 lavoratori, la maggior parte dei quali sono donne. Stiamo parlando del destino di 230 famiglie, per la maggior parte padovane e venete. Siamo molto preoccupati e chiediamo un immediato intervento del governo per convocare le parti e per raggiungere un’intesa a tutela del lavoro, scongiurando la chiusura dello stabilimento”.

La tensione è stata crescente prima e dopo Pasqua, soprattutto quando le rappresentanze sindacali hanno accusato l’azienda di voler di fatto provocare il licenziamento dei dipendenti, per poterne assumere altri negli altri stabilimenti, usufruendo dei benefici fiscali per le nuove assunzioni a tempo indeterminato contenute nella legge di stabilità. Un beneficio fiscale, sostengono i sindacati, che vale quasi cinque milioni di euro distribuiti in tre anni. Un teorema immediatamente smentito dall’azienda, che ha ribadito come la proposta di trasferimento avanzata alle lavoratrici dello stabilimento vada nella direzione opposta rispetto all’utilizzo delle riduzioni contributive previste dalla legge di stabilità per le nuove assunzioni. L’azienda ha sottolineato, proprio pochi giorni fa, che il “piano, impostato sulla riorganizzazione per poli produttivi è indispensabile per restare competitivi su un mercato sempre più difficile, pur nel tentativo di tutelare i complessi livelli di occupazione”.

Il dialogo tra le parti, pur nell’emergenza e nella difficoltà, è stato comunque avviato. La sfida è certamente importante: da una parte un gruppo che vuole ottimizzare la propria produzione, dall’altra le esigenze delle lavoratrici che rifiutano qualsiasi ipotesi di esodo, percepito come uno sradicamento violento dal proprio territorio e dal proprio contesto anche familiare. Ancora una volta siamo di fronte a una storia che illustra molto bene il paradosso del “chiudere per continuare a crescere”, anche se lo declina in chiave tutta italiana, senza il classico coinvolgimento di Paesi esteri. Ancora una volta siamo di fronte a un evidente conflitto tra capitale o, meglio, esigenze della produzione da una parte e lavoratori dall’altra. Un nodo che con sapienza e pazienza dovrà essere sciolto. Senza tentennamenti. Guidati da senso di responsabilità, da entrambe le parti. Per evitare che nel frattempo i colori dei grembiuli sui cancelli scoloriscano. E diventino grigi, il colore di un futuro incerto e senza speranza. Un colore che il nostro Paese conosce purtroppo molto bene.