Quando iniziai a insegnare Storia dell’Europa orientale all’Università di Padova, nel 1999, era ancora ben viva l’idea dell’Est da Guerra fredda: un insieme di Stati tra loro diversi ma accomunati dall’esperienza dei regimi comunisti tra il 1945 e il 1989. Un’Europa sfortunata, dopo decenni di non democrazia, in transizione verso il modello occidentale, con l’Unione europea come obiettivo e con il dramma delle guerre nella Jugoslavia dissolta, a ricordare che i Balcani erano sempre quelli, complessi e violenti. L’esperienza antidemocratica dell’Unione Sovietica e del blocco dei suoi satelliti era quella di chi ha perso il treno giusto della storia. Così si ragionava.

La transizione verso il nuovo avvenire e l’Ue sembrava un percorso interminabile, ma effettivo per alcuni Paesi, come gli Stati del gruppo di Višegrad, gruppo che era stato voluto dalla Comunità economica europea ancora nel 1991, ossia Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria, in attesa di entrare nell’Unione. Ad essi erano stati affiancati la Slovenia, una Repubblica uscita senza molti danni dalla Jugoslavia e i tre Paesi baltici Estonia, Lettonia e Lituania. Divennero membri dell’Ue nel 2004. Poi c’era l’Europa Sud-orientale, dove Romania e Bulgaria ebbero un percorso rapido e preferenziale, tanto da aderire all’Ue già nel 2007, anche perché strategici per la Nato. Più lento fu il processo della Croazia, che solo nel 2013 approdò all’Unione. Dopo di essa tutto si è fermato, si sa. Così abbiamo i cosiddetti Balcani occidentali e una non-Ue, enclave nell’Ue, composta da Serbia, Albania, Montenegro, Bosnia ed Erzegovina, Macedonia del Nord (che ha dovuto cambiare Costituzione e nome per poter dialogare con Bruxelles) e il Kosovo, non riconosciuto del tutto sul piano internazionale. Una zona grigia nella mappa dell’Ue, una sala d’attesa, nonostante alcune candidature abbiano ormai vent’anni.

Nei confronti dell’Est oltre i confini di Polonia e Romania, l’Unione europea ha avviato nel 2009 una Eastern partnership, nell’ambito dell’European Neighbourhood Policy, rivolta a Ucraina, Bielorussia, Moldavia, Georgia, Armenia e Azerbaigian, Paesi intesi come vicinato europeo, appunto, con cui sviluppare buone relazioni e poco più. La Turchia, si sa, ha una sua storia di mancata adesione all’Ue. Fuori da questi orizzonti era intesa la Russia, un mondo a sé. La Russia è europea sì sul piano culturale, ma è diversa per il suo percorso storico, il suo essere un continente. La Russia, del resto, già con la prima presidenza di Vladimir Putin, era tornata a considerarsi una potenza globale, nonostante avesse un Pil inferiore a quello della Svizzera.

Quindici anni fa, tutto sommato, il dialogo tra Unione europea e Paesi post-sovietici, nonché con la Turchia e i Balcani occidentali, alimentava la speranza che oramai c’era un’unica Europa, pur nella declinazione Ue e non-Ue. Insomma non c’era più ragione di parlare di Europa orientale, di Est come “altro”. Era giunto il momento di pensare all’Europa nella sua interezza geografica, continentale; occorreva pensarla sul piano politico, economico e culturale, nonostante le specificità regionali.

Oggi appare davvero lontano il wishful thinking del triennio 2004-2007. E promettente ci sembra adesso, nonostante tutto, il ventennio 1989-2008. Transizioni, speranze, nostalgie, delusioni, ma tutti puntati in avanti. È chiaro che abbiamo vissuto una fase particolare della storia europea, una fase storica che purtroppo non siamo riusciti a comprendere per poter pensare, immaginare in modo diverso l’Europa, al di là della dicotomia Ue/non-Ue.

Oggi appare davvero lontano il wishful thinking del triennio 2004-2007. E promettente ci sembra adesso, nonostante tutto, il ventennio 1989-2008. Transizioni, speranze, nostalgie, delusioni, ma tutti puntati in avanti

Il discorso di Vladimir Putin a Monaco nel 2007 presagiva future difficoltà. Rimane il sintomo, il segno che qualcosa era cambiato già allora, che pesava eccome la geopolitica in seno all’Europa tra area post sovietica e Ue. Ma la ragione economica, la miopia dei ceti dirigenti, o burocratici o populisti, e l’assenza di visioni dentro l’Unione europea, in mezzo e oceani di analisi del presente, del contingente, dopo la crisi del sistema nel 2008 e poi altre distrazioni e crisi (le primavere arabe, gli attacchi terroristici dell’Islam radicale, Brexit, Trump) hanno impedito ci fosse lucidità in grado di valutare il passaggio storico che l’Europa stava vivendo. Tutte cose che sappiamo.

La stessa Russia, per quanto fosse chiaro che cos’era e cos’è a chi la conosce, era accettata nella sua particolarità, era tollerata la sua discutibile democrazia, perché, dopo tutto, c’era la Cina in crescita straordinaria, la Cina che funziona, anche se retta da un regime comunista. Poteva esserci dunque l’Occidente e potevano esserci gli altri, The West and the Rest, secondo il fortunato libro di Niall Ferguson (2011); il mercato globale avrebbe fatto il resto. La via della seta, nome semplificato per un processo storico (non solo economico) avviato dalla Cina nel 2013, aveva ridefinito tutto lo spazio asiatico che nell’Est europeo, nei Balcani e nel Mediterraneo ha le sue frontiere occidentali, i suoi terminal di smistamento, i suoi adepti.

Ed ecco che, nel 2014, la faglia storica tra Est e Ovest in seno all’Europa, ancora una volta si è ripresentata in tutta la sua criticità nella fragile Ucraina, divenuta centrale per gli equilibri tra una Russia euroasiatica e l’Unione europea e la Nato, sua espressione militare. L’annessione della Crimea e delle province orientali dell’Ucraina da parte della Russia nel 2014 ricordava la situazione sorta in Jugoslavia nel 1991, poco prima che le guerre jugoslave deflagrassero. Eppure in otto anni non si è trovata una soluzione di compromesso per evitare il peggio. Così oggi un durissimo conflitto scuote l’Europa. Dire “alle porte d’Europa”, come si fa nei media italiani, è voler fuggire dalla realtà. Dal 2014 si stanno configurando contrapposte sfere politiche nel continente e questa guerra non ha fatto che riportare in superficie questioni storiche dimenticate e rivelare tutta la complessità della nuova Europa orientale.

È un Est complicato, perché plurimo e non paragonabile a quello da Guerra fredda. Si tratta di cinque contesti e cinque scenari interdipendenti. Partiamo da oriente, dal primo contesto. Che cosa sarà della Russia una volta raggiunta – si spera – una tregua? Sarà difficile metabolizzare la sconfitta militare o comunque ammortizzare il prezzo altissimo dell’azzardo bellico avviato il 24 febbraio 2022. La Russia ne uscirà molto debole, tutti i vantaggi degli anni di Putin sul piano economico e l’autorità sul piano internazionale sono stati cancellati. Non si sa quanto stabile potrà rimanere questo Paese che si alimenta dell’idea di essere una potenza. Con quale narrazione si cercherà di superare la crisi morale? Dopo la sconfitta in Crimea nel 1856 la Russia ha saputo riformarsi. Ma domani? Gli esiti incerti per la Russia odierna si riverberano sulla crisi nel Caucaso, dimenticata dai media, sul conflitto tra Armenia e Azerbaigian, stabilizzato per ora da una tregua, e si riflettono sul destino della Bielorussia.

La Russia uscirà molto debole dalla guerra, tutti i vantaggi degli anni di Putin sul piano economico e l’autorità sul piano internazionale sono stati cancellati. Non si sa quanto stabile potrà rimanere questo Paese che si alimenta dell’idea di essere una potenza

L’Ucraina rappresenta un secondo contesto. Ne esce vittoriosa dal conflitto, rafforzata sul piano della coesione nazionale, anche nell’ipotesi di perdite territoriali. Se fosse crollata subito a febbraio, come accadde con la Cecoslovacchia nel 1968, o con la Polonia nel 1939, sarebbe stato un disastro per l’Europa: la prova che un’aggressione e un colpo di Stato erano possibili, ossia la fine dell’idea di democrazia e di sovranità. Questo conflitto ci terrorizza, ma il principio di sovranità non si discute. E senza farci illusioni, il dopoguerra per questo Paese sarà molto difficile non tanto e solo per i costi della ricostruzione quanto per il probabile permanere di una situazione politica e militare a lungo priva di soluzioni definitive. I casi di Cipro e della Bosnia ed Erzegovina, con soluzioni di compromesso diverse tra loro, ci ricordano che gli Stati posti sulla faglia Est/Ovest, ormai una faglia tra Europa e Eurasia, rimangono congelati nell’essere un compromesso, purché ci sia la pace.

Un terzo contesto si può ritenere l’Iniziativa dei tre mari, un vero e proprio antemurale che è sorto dentro l’Ue rivolto verso la Russia. L’Est dell’Ue non è solo rappresentato dal gruppo di Višegrad ma dai Paesi radunati attorno alla Three Seas Initiative, promossa dalla Polonia dal 2016, in risposta (per molti versi) all’annessione russa della Crimea. Si parla di Trimarium ed è un forum di cui fanno parte Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Austria, Ungheria, Slovenia, Croazia, Romania e Bulgaria: forum che puntava a unire ancor di più lo spazio economico e sociale compreso tra il Mar baltico, il Mar nero e l’Adriatico e che oggi è accomunato dalla corsa agli armamenti e dall’integrazione dei sistemi di difesa entro la cornice della Nato. Si ripropone così il piano geopolitico polacco dell’Intermarium, elaborato da Josef Pilsudski nel 1919, ossia l’organizzazione di un concerto di Stati (comprese Ucraina e Bielorussia) di media e piccola grandezza, interposta fra l’allora Unione Sovietica e Germania, con la Polonia al centro, quale potenza regionale e riferimento sul piano politico e culturale. Di fatto oggi è la Polonia il Paese più autorevole in questo nuovo consesso politico e militare. In pochi anni essa è riuscita a imporsi rispetto alla Germania nell’Est dell’Ue, che si sta profilando come un’area specifica al confine con l’Eurasia.

Il Trimarium confina infatti con lo spazio post-sovietico e con il quarto Est europeo, i Balcani occidentali, oramai un proto Medioriente dentro l’Unione europea. I Balcani occidentali confermano di essere la periferia sconfitta dell’Occidente, il crocevia di interessi e calcoli geopolitici di potenze e semi-potenze esterne all’area. Qui convergono tutti i giochi globali. Lo si vede dai media, che sono propaggini di imprese d’informazione statunitensi, russe, cinesi, del Qatar; lo si vede dai finanziamenti provenienti da fondazioni tedesche, dalla Open Society e diverse altre Ong occidentali sia nella vita culturale sia nella politica, così come per le fondazioni religiose islamiche lo si vede dai finanziamenti che giungono dall’Arabia Saudita e dalla Turchia. La Cina investe nelle infrastrutture. I sei Paesi dei Balcani occidentali sono già ora il limite occidentale della nuova Eurasia.

Infine, un quinto Est europeo è la Turchia. Negli ultimi due decenni si parla di neo-ottomanismo per indicare la politica estera della presidenza Erdogan, una Turchia proiettata tra i Balcani, la Siria e il Caucaso fino all’Asia centrale e, di recente, in Libia. Sono di fatto spazi che furono dell’Impero ottomano. E anche in questo caso, la Turchia funziona come un Paese occidentale, inserito nell’Occidente, nella Nato, ma orgoglioso della propria storia, della propria posizione specifica tra due continenti. E la storia pesa in Turchia, come del resto in Russia e nei Balcani.

Oggi l’Est europeo è, in sostanza, la somma delle dinamiche in atto in questi cinque contesti. La trasformazione di essi è evidente; in diversi casi la storia ritorna sotto nuove forme. Questa è la realtà che l’Unione europea deve affrontare adesso e negli anni a venire, con dovuta consapevolezza. Sarà una costante sfida. L’Italia stessa dovrebbe prendere atto che confina con il contesto geopolitico del Trimarium, che rimarrà tale a lungo, e con i Balcani occidentali, la soglia dell’Eurasia, lì oltre l’Adriatico.

 

[Dello stesso autore, appena pubblicato per il Mulino, Est/Ovest]