Ketanji Brown Jackson è ufficialmente la prima donna afroamericana a sedere nella Corte Suprema degli Stati Uniti e la sesta donna nella storia, eletta su 115 membri che si sono susseguiti dal 1789 a oggi, dopo Sandra Day O’ Connor (1981-2006), Ruth Bader Ginsburg (1993-2020) e le tre attualmente in carica: Sonia Sotomayor e Elena Kagan, scelte da Obama tra 2009 e 2010, e Amy Coney Barrett, designata da Trump dopo la scomparsa di Ginsburg.
La storica conferma del 7 aprile, con un voto in Senato di 53 favorevoli (3 voti repubblicani e tutti i 50 democratici) e 47 contrari, porta per la prima volta a una condizione di quasi equilibrio di genere con quattro donne su nove membri eletti. Non varia in ogni caso l’equilibrio politico a Marble Palace: da una parte i sei conservatori Clarence Thomas, John Roberts, Samuel Alito e i tre giudici nominati da Trump (Neil Gorsuch, Brett Kavanaugh oltre la sopracitata Barrett) e dall’altra le tre giudici liberal (Sotomayor, Kagan e la neo-eletta).
La cinquantunenne subentrerà infatti al progressista Stephen Breyer che, nominato da Clinton nel 1994, con il giusto tempismo ha scelto di ritirarsi prima delle elezioni di midterm di novembre che potrebbero cambiare i rapporti di forza in Senato (attualmente 50-50, con possibilità di voto della vicepresidente Harris in caso di parità) mettendo a rischio una plausibile nomina democratica alla Corte Suprema.
«La principale lezione che possiamo trarre da 250 anni di storia americana è che i presidenti non sono dei re, non hanno sudditi, vincolati dalla lealtà o dal sangue, e non hanno titolo a controllarne il destino. In questa terra di libertà, piuttosto, è fuori discussione che attuali e passati dipendenti della Casa Bianca lavorino al servizio del popolo americano e che da cittadini americani, anche consiglieri ed ex consiglieri presidenziali abbiano diritti costituzionali come la libertà di parola che conservano anche una volta passati a vita privata».
Questo passaggio è estratto da un parere del 2019 della nuova giudice della Corte Suprema dove si citano passi dal classico Democrazia in America di Tocqueville, da Il Federalista n. 51 di James Madison e dal n. 69 di Alexander Hamilton: fuori dal contesto potrebbero suonare quasi banali, se consideriamo il ruolo dell’autrice, una funzionaria con un’esperienza pluridecennale da avvocata e giudice federale. Ma era appunto il contesto a fare la differenza: nella fattispecie la delicata decisione della Corte Distrettuale di Washington D.C., di cui Brown Jackson faceva parte come giudice, sul caso Donald McGahn, ex consigliere di Trump cui la Commissione Giustizia della Camera aveva recapitato un mandato di comparizione per testimoniare nel primo processo di impeachment a Donald Trump, accusato di aver trattenuto gli aiuti militari all’Ucraina per fare pressioni sul presidente Zelensky affinché avviasse un'indagine sulla corruzione nei confronti di Biden, di suo figlio Hunter e la sua società ucraina.
I legali di Trump si erano appellati a un presunto principio di immunità dei membri dell’Esecutivo, che non possono essere costretti a testimoniare, ma la giudice Brown Jackson decise di dare ragione al Congresso spiegando le ragioni del pronunciamento nelle motivazioni.
La sentenza sul caso McGahn non è l’unica a essere ricordata dal mondo conservatore per criticare la scelta di Joe Biden, ufficializzata lo scorso 25 febbraio. Nel corso della conferenza stampa di annuncio della nomina, oscurata dalle notizie che arrivavano dall’Ucraina con l’inizio dell’attacco russo, il presidente aveva dichiarato che «per troppo tempo il governo e le Corti non avevano rispecchiato l’America così come appare oggi», con un chiaro riferimento alla diversity e al suo preannunciato intento di includere per la prima volta un’afroamericana nella più alta corte del sistema federale.
Nel 2018 Brown Jackson aveva bocciato definendo “arbitraria e stravagante” la disposizione del Dipartimento alla Salute dell’amministrazione Trump che tagliava i fondi per i programmi di prevenzione alla gravidanza per i giovani. Nel 2019 aveva emesso un’ingiunzione preliminare nel caso Make The Road New York v. McAleenan per bloccare il decreto dell’amministrazione Trump che istituiva una corsia veloce di espulsione per gli immigrati irregolari senza un’udienza intermedia.
Promossa da Biden nel marzo 2021 alla Corte d’Appello di Washington D.C., aveva subito invalidato una norma che ostacolava la contrattazione collettiva per i dipendenti federali. A fine anno si era trovata nuovamente a decidere su un caso legato a Trump, dando ragione ancora una volta al Congresso che aveva chiesto di ottenere la documentazione sulle conversazioni della Casa Bianca avvenute nelle drammatiche ore dell’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio dell'anno scorso, che l’ex presidente non vuole mettere a disposizione degli inquirenti.
Nonostante le sue decisioni più divisive, per usare le parole di Biden “le credenziali eccezionali” e “la dedizione profonda per lo Stato di diritto” di Ketanji Brown Jackson sono testimoniate da una carriera brillante.
Nata nel 1970 a Washington D.C. e cresciuta in Florida, dove il padre avvocato era responsabile legale del distretto scolastico di Miami e la madre direttrice alla New World School of Art, appena ventunenne si è laureata in Government ad Harvard e quattro anni dopo si è laureata con lode in Legge sempre ad Harvard, nella prestigiosa School of Law. Nei primi anni di attività forense ha lavorato da assistente legale per corti distrettuali e grandi compagnie private e, da vera predestinata, nel 1999-2000 è stata parte dello staff di Stephen Breyer, il giudice della Corte Suprema che curiosamente si sarebbe trovata a sostituire due decenni più tardi.
Tra le credenziali del tutto inedite per un giudice della Corte Suprema spicca quella da difensore d’ufficio, una figura pensata alla fine del XIX secolo dalla prima avvocata della West Coast, Clara Shortridge Foltz
Tra le credenziali del tutto inedite per un giudice della Corte Suprema spicca quella del suo passato da difensore d’ufficio, una figura pensata alla fine del XIX secolo dalla prima avvocata della West Coast, Clara Shortridge Foltz, che dedicò la sua vita professionale a dare un riconoscimento formale alla funzione di difensore pubblico per tutti coloro che non hanno disponibilità economiche per pagare avvocati e spese processuali. Il primo Public Defender Office sarebbe stato aperto solo nel 1914 nella Contea di Los Angeles, ma nessun giudice della Corte Suprema vi aveva mai prestato servizio, prima di Brown Jackson.
Nel 2005, da difensore d’ufficio del District of Columbia, ha difeso decine di nullatenenti e ha ottenuto il delicato incarico di difendere quattro detenuti a Guantanamo, tra cui due talebani e un rappresentante di Al Qaeda, un trascorso che non è sfuggito ai senatori repubblicani Lindsey Graham e John Cornyn nel corso delle rituali audizioni per la conferma in Senato della nomina presidenziale dei componenti della Corte Suprema.
Brown Jackson si è difesa appellandosi al valore costituzionale del diritto alla difesa in un processo equo, valido anche per i criminali più violenti, che peraltro non possono essere rifiutati o selezionati dal public defender ma sono per natura stessa del ruolo assegnati d’ufficio.
Nei momenti più accesi della due giorni di audizioni di fine marzo, ha definito non attinenti rispetto al suo incarico le domande poste da Marsha Blackburn e Ted Cruz, che cercavano di trascinare il dibattito sul territorio delle “culture war” – per indagare la posizione di Brown Jackson sull’insegnamento della Teoria critica della razza nelle scuole – e sulla questione dell’accesso delle atlete trans allo sport femminile (appena vietato in Texas). «Non sono una biologa», ha sentenziato lapidaria alla richiesta di dare ai presenti una definizione della parola “donna”.
La Scotus (Supreme Court of the US) in pectore ha preferito poi non sbilanciarsi sulla sua appartenenza a una delle due storiche correnti filosofiche del diritto pubblico, quella degli “originalisti”, che interpretano la Costituzione attenendosi fedelmente al testo originale e alla volontà dei Padri Fondatori, e quella dei sostenitori della “Costituzione vivente”, che ammettono evoluzioni di valori e principi in linea con i cambiamenti della società. «La mia filosofia – ha dichiarato nel corso delle audizioni – è quella di guardare ai casi con imparzialità, in linea con la mia indipendenza da funzionaria della giustizia. Sono consapevole del mio ruolo sottoposto ai limiti costituzionali, pertanto prendo molto sul serio tutti i vincoli nell’esercizio delle mie autorità che esistono nel nostro sistema».
La sua figura autorevole, a dispetto del suo passato e delle sue prese di posizione molto apprezzate nel mondo progressista, ha trovato consensi anche tra i repubblicani
La sua figura, a dispetto del suo passato e delle sue prese di posizione molto apprezzate nel mondo progressista e delle associazioni per i diritti civili, ha trovato consensi anche tra i repubblicani, e non solo in famiglia: il fratello gemello di suo marito è sposato con la cognata di Paul Ryan, ex astro nascente repubblicano e candidato vicepresidenziale nel 2012 proprio con Mitt Romney, uno dei tre senatori del G.O.P. ad aver appoggiato la nomina di Brown Jackson, insieme a Lisa Murkowski e Susan Collins.
In un’America polarizzata come in poche epoche del passato e in una fase di nuove fratture razziali che perdura da ormai un decennio, la nomina di Ketanji Brown Jackson – dopo l’elezione della prima vicepresidente afroamericana – assume un forte valore simbolico, che potrebbe infondere fiducia nelle istituzioni a generazioni di esclusi e in particolare alla comunità afroamericana.
Tuttavia la maggioranza della Corte Suprema è saldamente in mano ai conservatori e non lascia molti spiragli di pacificazione e mediazione in vista dei prossimi pronunciamenti: il prossimo term si aprirà a ottobre con dibattimenti su questioni molto divisive, come l’affirmative action nell’istruzione superiore, il rapporto tra definizione dei distretti elettorali e sotto-dimensionamento del peso elettorale delle minoranze e l’esclusione di coppie omosessuali da servizi matrimoniali forniti da attività e locali pubblici motivata da convinzioni religiose.
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