È di qualche giorno fa la divulgazione di un rapporto della Conferenza episcopale italiana (Cei) dedicato al problema della pedofilia nella Chiesa italiana: un contributo alla preparazione della Giornata di preghiera per le vittime di abusi, indetta in concomitanza con la Giornata europea per la protezione contro lo sfruttamento sessuale dei minori del 18 novembre. Chi si attendeva che le autorità ecclesiastiche delle diocesi italiane aprissero finalmente un varco nel muro di silenzi che ha caratterizzato la reazione delle gerarchie di fronte ai crimini di pedofilia commessi dal clero ha parlato giustamente di un’occasione mancata e di un rapporto lacunoso e reticente. Le associazioni delle vittime, le agenzie di stampa e i giornali che negli ultimi anni hanno insistito di più perché le dimensioni del fenomeno venissero finalmente alla luce in tutta la loro gravità («Left», «Domani», ma anche la cattolica «Adista») hanno manifestato rabbia e delusione, denunciando pubblicamente l’atteggiamento della Cei e il modo in cui ha disatteso la promessa di cambiare verso a una lunga storia.
Poteva andare diversamente? Si poteva davvero credere che un’istituzione (non vale solo per la Chiesa) fornisse cifre e dati capaci di comprometterne l’immagine, il prestigio e la missione in modo forse irreparabile? Eppure, basterà guardare fuori dall’Italia per comprendere che un’altra strada sarebbe stata praticabile. Potevano intervenire le autorità civili della nostra Repubblica, sempre molto distratte rispetto al problema della pedofilia, seguendo la scia della cattolica Irlanda: lì sono stati il Parlamento e il governo a prendersi carico della questione dopo la circolazione del rapporto Ferns, Ryan, Murphy e Cloyne, stilato per conto di Amnesty International, che nel 2011 aveva rubricato migliaia di abusi commessi nel secondo dopoguerra. O si poteva fare come in Francia, dove il cosiddetto rapporto Sauvé, presentato nel dicembre del 2021 da una commissione indipendente per incarico della Conferenza episcopale francese, travolta da gravi scandali come quello della diocesi di Lione, ha parlato di ben 300 mila vittime negli ultimi decenni, suscitando comunque forti polemiche da parte di chi lo ha giudicato insufficiente. Si poteva fare come nei Paesi Bassi, in Australia e, parzialmente, negli Stati Uniti o in Germania: realtà in cui sono state prodotte altre inchieste volute dalle gerarchie e dove l’opinione pubblica, con il contributo della grande stampa, è stata assai meno indulgente che in Italia. Tanto più che il pontificato di Bergoglio è parso meno incline a coprire l’enormità di questo problema, che ha scosso diverse Chiese nazionali in varie parti del mondo.
Non va sottovalutato il segnale che le gerarchie italiane hanno dato alle vittime degli abusi e all’opinione pubblica. Né si capisce perché un rapporto non possa essere prodotto da una commissione laica, senza l’avallo delle gerarchie
Da noi non è andata così, almeno per ora, e sarebbe grave sottovalutare il segnale che le gerarchie italiane hanno dato alle vittime degli abusi e all’opinione pubblica. Né si capisce perché un rapporto non possa a questo punto essere prodotto da una commissione laica, composta da cattolici e non, senza l’avallo delle gerarchie. Inutile girarci attorno: la pubblicazione di questo primo report della Cei sulla tutela dei minori non costituisce affatto una risposta convincente alla domanda insistente e inevasa sulla questione della pedofilia ecclesiastica in Italia. Esso si limita alle segnalazioni giunte nel biennio 2020-2022 presso i servizi e i centri di ascolto diocesani, una rete di recente istituzione nata a sostegno dei minori e delle persone vulnerabili. Questi centri, di cui non conosciamo la capacità di audience presso i fedeli, sono stati contattati molto parzialmente (stando al rapporto, solo 30 su 90 hanno ricevuto segnalazioni) e i risultati presentati si riferiscono a 166 diocesi della Penisola su 226. Ma non è questo il punto: il dato offerto, 89 episodi e 73 minorenni abusati nel biennio, appare estremamente parziale e assai discutibile. «È una prima fotografia, siamo solo agli inizi», ha detto monsignor Lorenzo Ghizzoni, presidente del Servizio nazionale per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili della Cei. La fotografia, tuttavia, è sfocata. Mancano infatti i non pochi casi di sacerdoti e clerici accusati di pedofilia davanti alla magistratura italiana, alcuni dei quali noti, come ad esempio quello di don Giuseppe Rugolo a Piazza Armerina, abusatore di tre minori, coperto dall’autorità vescovile. Non ci si è preoccupati poi di far conoscere i fascicoli aperti da tempo presso la Congregazione per la dottrina della fede su abusi sessuali di minori, che sono, a quanto è dato di sapere, almeno 613 casi gravi per il periodo 2001-2020 – non si conosce il numero delle vittime. E rimane aperta la questione dei casi risalienti, andati in prescrizione davanti alla magistratura civile, e in sostanza anche davanti alle istituzioni disciplinari della Chiesa cattolica.
La radice di questo scandalo risiede nella pervicace volontà di trattare i casi secondo una tradizionale prassi penitenziale, mentre la percezione comune riconosce gli abusi sui minori come crimini imperdonabili. E la legge come reati
La strada scelta è stata evidentemente quella di spezzettare le informazioni sulla pedofilia in Italia, non presentando un unico rapporto sul fenomeno e soprattutto non delegando il compito di fare inchiesta a reputati esperti indipendenti, come avvenuto in altri episcopati. Nonostante la pedofilia ecclesiastica rappresenti il principale problema della Chiesa cattolica nell’ultimo quarto di secolo, con conseguenze drammatiche e dilanianti in tutto il mondo cristiano latino, l’episcopato italiano persiste in una linea, se non di occultamento, di minimizzazione e di basso profilo. Una “strada italiana” fatta di reticenze, occultamento e silenzio. Per di più, nella conferenza stampa che ha riassunto i dati del rapporto, si insiste ancora sulla segnalazione alle autorità ecclesiastiche, senza nulla dire circa il dovere di informare la magistratura secolare; si parla di 45 autori di abusi appartenenti al clero regolare o secolare; di episodi che coinvolgono catechisti e animatori delle associazioni della Chiesa e, soprattutto, di percorsi di «riparazione, responsabilizzazione e conversione» rivolti ai perpetratori di violenze di diversa gravità, come se si trattasse di colpe risolvibili nell’ambito di un percorso spirituale tutto inteso a sanare il peccato e non il crimine. La storia della pedofilia ecclesiastica, che anche noi abbiamo provato a tracciare in un nostro libro recente, ci dice che la radice di questo scandalo risiede appunto nella pervicace volontà di trattare i casi secondo una tradizionale prassi penitenziale, mentre la percezione comune bolla gli abusi sui minori come crimini imperdonabili. E la legge come reati.
Al momento della sua nomina a presidente della Cei, nel maggio di quest’anno, il cardinale Matteo Maria Zuppi aveva fatto timidamente sperare in un’obbligata politica di trasparenza anche per la realtà italiana, ma il primo atto da lui patrocinato – non sappiamo con quante resistenze dentro l’assemblea dei vescovi della Penisola – sembra non andare in questa direzione.
Due giorni dopo la presentazione di questo rapporto, e in connessione con esso, si è tenuto un convegno presso la Pontificia Università Lateranense intitolato Dalla parte dei bambini, per parlare di prevenzione degli abusi sui minori, ma spostando l’attenzione su casi avvenuti in famiglia, a scuola e negli ambienti sportivi. Sempre Ghizzoni, in quell’occasione, ha dichiarato che «a noi preme fare verità sul passato e fare giustizia, perché si tratta di un reato e un peccato gravissimo, ma ci preme anche che ciò non accada più, e per questo siamo impegnati nella prevenzione».
Un reato o una colpa? La Chiesa cattolica sembra non avere capito che una violazione di ordine morale, affrontata attraverso la confessione, il pentimento e la penitenza, non può restare distinta da una di ordine giudiziario, che comporta necessariamente un processo e un’esposizione mediatica, e in caso di condanna la detenzione del reo.
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