Sono le 9 e 25 di un giovedì qualsiasi, negli studi Rai di via Asiago a Roma. Come accade oramai da alcuni anni, sono pronto a condurre la trasmissione di Radio3 Primo movimento, dedicata alle novità discografiche classiche.
Accanto a me siede Vittorio Giacopini. Sta concludendo la rassegna della stampa culturale con un’ultima notizia presa al volo: «La musica in Internet rende». «Devo essermi perso qualcosa!» - penso subito tra me e me…
Secondo le ultime statistiche, l’industria discografica avrebbe finalmente trovato nella Rete un partner efficace: il motivo? Le vendite online lo scorso anno sono aumentate dello 0,3%. Il dato in sé non sembrerebbe così importante, anzi… una crescita dello 0,3 appare piuttosto esigua. Ma nel caso specifico secondo gli estensori dell’articolo citato rappresenterebbe quasi una rivoluzione: è la prima volta da più di tredici anni che le vendite del mercato musicale tornano ad aumentare.
Il declino era cominciato nel 1999, l’anno in cui sul web era apparso il temibile Napster. Il programma di file sharing sarà chiuso due anni più tardi ma, ahimé, ormai la discesa a precipizio è cominciata. Fra download illegali, peer-to-peer e servizi di streaming, in pochissimo tempo la Rete mette in crisi l’industria della musica fino a farle segnare un -40% nelle vendite (una stima che personalmente giudico più che ottimistica, ma diamola per buona).
Quindi, tutti felici, ora la perdita è soltanto del 39,7%! Questi i dati: secondo il rapporto della Federazione internazionale dell’industria fonografica (Ifpi), che rappresenta 1.400 compagnie di tutto il mondo, i ricavi globali sarebbero passati da 16,4 miliardi di dollari nel 2011 a 16,5 nel 2012. Un modestissimo incremento che ha però spinto Frances Moore, presidente Ifpi, a dichiarare che «siamo sulla strada della ripresa, grazie all’industria della musica che ha saputo adattarsi al mondo di Internet». Non solo: secondo Russell Crupnick, vicepresidente senior del settore analisi della società di ricerche statunitense Npd Group, «per l’industria della musica, che sta lottando contro la pirateria digitale da oltre un decennio, il 2012 è stato un anno di progressi».
Permettetemi di essere scettico. A parte il fatto che la quasi totalità dei brani musicali circolanti in Rete infrange i diritti d’autore di artisti e case discografiche (l’International Federation of the Phonographic Industry parla del 95%!), la cultura che ha ormai preso il sopravvento ritiene che sia da sciocchi pagare la musica, dal momento che è possibile averla gratis e praticamente senza correre rischi.
Sembra di essere tornati indietro nel tempo. A metà degli anni Settanta c’era chi affermava che i concerti dovevano essere gratuiti, perché «la musica è di tutti». Un concetto sinceramente folle. Il risultato? Dopo gli scontri avvenuti nel 1975 al palasport di Roma tra forze dell’ordine e gruppi di manifestanti che tentarono il boicottaggio dell’esibizione di Lou Reed, contestando all’impresario David Zard di lucrare indebitamente sulla musica, per cinque anni non abbiamo più assistito a concerti rock in Italia.
Nessuno nega il fatto che Internet rappresenti una grande opportunità e offra la possibilità di raggiungere facilmente un enorme platea. Ma l’idea condivisa da molti è che tutto ciò che si trova nella Rete debba essere gratis! Così la pirateria digitale sottrae risorse a chi investe idee e capitali nella produzione di musica, film e altri prodotti della creatività.
Che cosa possiamo fare? Adottare forme di protesta? Indire uno sciopero dei musicisti? Tornare ai tempi di Mozart? Cercare di nuovo qualche mecenate che finanzi il nostro lavoro, come un novello cardinale Colloredo?
Il lavoro nel campo della musica richiede studio, tempo e denaro. Eppure la maggior parte di coloro che la ascoltano non è disposto ad accettare il fatto che scaricarla illegalmente equivalga a rubare, né più né meno.
So bene che per molto tempo i cd hanno avuto prezzi alti, ma credo che non pagare l’impegno di chi suona e compone sia da considerarsi assolutamente inconcepibile, né più né meno.
Ma tant’è. E devo ammetterlo: ormai quando vado ad acquistare un disco mi sento anche un po’ stupido. È una sensazione che provo soltanto io? Forse converrebbe aspettare, prima di dichiarare che Internet sta salvando l’industria discografica, cogliendo invece l’occasione data da questi facili entusiasmi per tornare a riflettere sul grande divario tra la necessità di una base di risorse per chi fa musica, da un lato, e le spese sempre minori che deve sostenere chi ne gode, dall’altro.
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