La mia benzina finanzia Daesh. Il discorso sul fondamentalismo e il terrorismo oscilla tra due estremi. Per alcuni è questione di scontro fra valori – fra i valori illuministi e liberali, oppure cristiani, e i valori oscurantisti e anti-liberali, oppure islamici. Per altri è questione tutta politica – gli equilibri geopolitici, il predominio delle potenze Nato, le scelte sbagliate di politica estera dopo la caduta del Muro, fino alle più estreme ipotesi complottiste e giustificazioniste (è tutta colpa dei governi occidentali che hanno turbato equilibri preesistenti in Afganistan, in Iraq, in Libia; gli attacchi terroristici sono sicuramente operazioni di intelligence deviate, per giustificare l’Impero euro-americano, o sino-americano, o russo, sul Medioriente). Sono modi di vedere tutto sommato confortevoli. Se è questione di guerra di civiltà, c’è in fondo la consolazione di sentirsi nel giusto e sotto attacco. Se è questione di cattiva politica, c’è la consolazione di sentirsi oppressi da governi ingiusti, che non ci rappresentano e sono in preda di istituzioni deviate e cospirazioni delle élite.

Ma rimane il problema: da dove vengono i soldi che finanziano il terrorismo? A questo proposito, c’è un’argomentazione, non troppo enfatizzata, che mette insieme politica e valori e arriva a conclusioni, viceversa, assai meno confortevoli.

Attacchi come quello lanciato a Parigi, così come tutta la complessa gestione di un sedicente nuovo Stato com’è Daesh, si fondano sulla disponibilità di denaro. Denaro che deriva principalmente da due fonti: da realtà esterne al sedicente Stato islamico (per esempio fondazioni che più o meno nascostamente inviano denaro e operano prevalentemente in Arabia Saudita) e dai guadagni della vendita illegale di risorse del territorio – in primo luogo greggio e reperti archeologici.

I critici da sinistra dell’imperialismo occidentale spesso menzionano i rapporti economici, e la dipendenza dal petrolio, come molla principale della politica estera euro-americana. Ma è uno dei valori di un’etica compatibile col capitalismo a venir messo in questione dal comportamento di Daesh e dalla nostra acquiescenza. Le risorse naturali e culturali sono un bene – per quanto si possa criticarne la mercificazione. Ma non sono un bene di chiunque se ne impossessi: ci sono diritti di proprietà che hanno una base morale, politica e giuridica chiara. E i diritti di proprietà spesso vanno insieme ai diritti di autodeterminazione dei popoli e delle persone. Anzi, una giustificazione del diritto a possedere cose – prima di tutto se stessi, il proprio corpo e il proprio tempo – sta proprio nel diritto di ognuno alla libertà e all’autodeterminazione. E un diritto all’autodeterminazione la possiedono anche entità collettive come i popoli. Si può sostenere che tali diritti all’autodeterminazione si accompagnino a diritti di proprietà che i popoli hanno sulle risorse che si trovano sul loro territorio. Lo dicono, ad esempio, i primi due articoli del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali del 1966, che recitano: «Tutti i popoli hanno il diritto di autodeterminazione. In virtù di questo diritto, essi decidono liberamente del loro statuto politico e perseguono liberamente il loro sviluppo economico, sociale e culturale. Per raggiungere i loro fini, tutti i popoli possono disporre liberamente delle proprie ricchezze e delle proprie risorse naturali, senza pregiudizio degli obblighi derivanti dalla cooperazione economica internazionale, fondata sul principio del mutuo interesse, e dal diritto internazionale. In nessun caso un popolo può essere privato dei propri mezzi di sussistenza».

I regimi non democratici non solo violano la libertà dei singoli e delle minoranze, ma nel momento in cui dispongono delle risorse di un dato territorio senza farne partecipi i gruppi e i popoli che su quel territorio vivono calpestano anche diritti di proprietà che a quella libertà sono legati. Daesh, insomma, non solo va contro i valori della democrazia e della libertà: va anche contro i diritti di proprietà dei malcapitati popoli che vivono nel territorio di cui s’è impadronito. E contro Daesh bisognerebbe, per essere fedeli a certi valori liberal-democratici, affermare anche il rispetto della proprietà collettiva delle risorse naturali e culturali.

Questo non cambia di molto lo stato delle cose, e la difficoltà di capire se un intervento militare sia proporzionato o opportuno. Anzi, forse questo modo di ragionare potrebbe attenuare le responsabilità di Daesh, dal momento che sono tanti gli Stati che non sembrerebbero legittimati a disporre delle risorse naturali dei loro popoli eppure vedono i loro titoli di proprietà riconosciuti dalla comunità internazionale – a partire dal governo dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi.

Ma quest’argomentazione implica una conseguenza rilevante. La nostra economia è interamente fondata sui combustibili fossili: del petrolio illegittimamente immesso da Daesh nei circuiti internazionali potremmo essere tutti noi gli utilizzatori finali. In un certo senso, i terroristi di Parigi si sono finanziati anche grazie ai nostri consumi. E allora vanno bene le marce, la discussione sullo scontro di civiltà, o l’accusa ai cattivi governi. Ma forse una presa di responsabilità collettiva potrebbe essere un’altra azione contro il terrorismo – un’azione difficile nella vita quotidiana, ma meno pericolosa dei bombardamenti. Un forte messaggio ai governi occidentali, da parte di cittadini che non vogliono più avere le mani che fanno benzina lordate dal sangue, un messaggio che auspichi controlli più forti, un regime di commercio pulito, facendo capire che un programma elettorale basato su energie alternative e lotta al commercio illegale avrebbe successo: anche questa potrebbe essere una quotidiana lotta al terrorismo. Per di più adatta anche a cittadini comuni che non vogliono fare gli eroi.