Giuseppe Pinelli (Pierfrancesco Favino) tende la mano verso Luigi Calabresi (Valerio Mastandrea), invitandolo a leggere Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters; succede a Milano, in una libreria Feltrinelli. Siamo all’inizio di Romanzo di una strage [Italia/Francia, 2012, 129’], ultimo film di Marco Tullio Giordana.
L’incontro in quella libreria, probabilmente, non è mai avvenuto, ma nel gioco di ombre e luci del cinema anche la platonica falsità dell’immagine può diventare “reale”. Questa immagine simboleggia un legame, seppur invisibile, tra le vite e i destini dei due uomini.
Una relazione che scorre su strade parallele da oltre quarant’anni, costringendo il Paese a voltarsi indietro per cercare nel 12 dicembre del 1969 una verità condivisa. Quella verità Pier Paolo Pasolini scrisse di conoscerla perfettamente: «Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato “golpe”. Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969». Il suo articolo, titolato Cos’è questo golpe? Il romanzo delle stragi ("Corriere della Sera", 14 novembre 1974), chiudeva con un triste «Io so, ma non ho le prove». A quarantatre anni di distanza, Marco Tullio Giordana è convinto che «queste prove sono diventate finalmente accessibili» e, con gli sceneggiatori Sandro Petraglia e Stefano Rulli, scrive il suo romanzo su Piazza Fontana. Una storia liberamente ispirata al libro Il segreto di Piazza Fontana di Paolo Cucchiarelli (Ponte alle Grazie, 2009).
Il corso degli eventi è retto dall’asse Pinelli-Calabresi, l’anarchico e il commissario di polizia: così lontani ma – in fondo – molto vicini. Dipinti entrambi da Giordana con un’aura di purezza che li eleva a uomini degni di stima in un contesto socio-politico nauseante. Con loro, le rispettive mogli, Licia Pinelli (Michela Cescon) e Gemma Calabresi (Laura Chiatti), anch’esse in qualche modo avvicinate nell’ansia per il quotidiano pericolo e, poi, nel cieco destino.
Insomma, Pinelli e Calabresi abbracciati in una rivalità ideologica, «usati uno contro l’altro, in un braccio di ferro infinito, uno dei tanti che paralizza il Paese e lo tiene costretto con la testa rivolta al passato», secondo Mario, figlio di Calabresi, nel suo libro Spingendo la notte più in là (Mondadori, 2007). Due uomini immersi nella loro solitudine: denominatore comune di esistenze che hanno segnato (e segneranno ancora per tanto tempo) lo scarto tra due punti di vista opposti su un periodo tenebroso.
Giorgio Bocca ricorda: «a forza di giocare con il fuoco degli opposti estremisti eravamo entrati in una guerra vera, e già in quella sanguinosa confusione si poteva capire che nel gioco era entrato qualcuno di superiore alle nostre politiche inimicizie. […] Aprendo la tetra stagione che sarà ricordata come “gli anni di piombo”, gli anni del terrorismo» ("la Repubblica", 11 dicembre 2009).
Proprio nella descrizione del contesto storico inciampa Romanzo di una strage: i personaggi di Giordana sono sospesi in un quadro sfocato, lontano dalla tensione esasperata di quei giorni. Solo all’inizio il regista fa intuire l’agitazione collettiva, attraverso l’incidente del 19 novembre dove perde la vita l’agente Antonio Annarumma. Il resto è un incastonarsi di personaggi “sottovuoto”, distanti dai bruschi movimenti del tessuto sociale.
Ma, come detto all’inizio, Giordana scrive un romanzo per mostrare la sua verità. Noi vediamo ricordi e fantasie di un testimone oculare, romanzati in dieci capitoli. La finzione, al cinema, è la magia più bella: la possibilità di partecipare a un mondo altro, creato dal regista e ricreato da noi in sala. Quella menzogna la accettiamo acquistando il biglietto. Gianni Amelio evidenzia bene lo scarto tra menzogna e bugia: la prima – scrive pressappoco – può essere grandiosa, richiede abilità e ingegno in chi la costruisce e, nel patto etereo tra regista e spettatore, non solo è lecita ma dovuta; la seconda, invece, è meschina. Fino a che punto la menzogna (molto cinematografica) inventata dal regista può spingersi senza diventare bugia (molto televisiva)?
Farà discutere Romanzo di una strage e, credo, il dibattito sarà una danza sfumata tra menzogna e bugia. Allora, non importa se quel Pinelli e quel Calabresi del film sono rappresentati diversamente dalle varie interpretazioni storiche; sono il Pinelli e il Calabresi di Giordana. Scontenteranno molti, ma è così. Certo, se il film fosse stato focalizzato sul personaggio (dio benedica Paolo Sorrentino) anziché sulla storia, forse quel Pinelli e quel Calabresi ne avrebbero guadagnato (e ne avremmo guadagnato anche noi). Come il personaggio di Aldo Moro (Fabrizio Gifuni), ad esempio, lontano dall’originale ma carico di una vena d’ascetismo molto cinematografica che lo eleva a deus: intuisce il male dilagante ed è «pronto a essere la prima vittima», come confida al suo confessore. In ogni caso, ripeto, queste sono menzogne. Cinema.
Rimango attonito, però, quando Giordana sollazza con il dubbio dei fatti storici. Perché stuzzicare le responsabilità della strage di Piazza Fontana? L’ipotesi della “doppia bomba” - una anarchica l’altra neofascista - rischia d'insinuare oscurità nell’unica zona chiara dell’inchiesta: le responsabilità. Mostrare questa possibilità sullo schermo è un vuoto tentativo di catarsi, o purificazione revisionista, come per accontentare tutti (o quasi). E il tentativo è molto televisivo. Bugia. Un film che manifesta l’obiettivo di raccontare una verità ma, ancor di più, di documentare una storia, oltre che finire con «e vissero felici e contenti», sarebbe dovuto iniziare con «c’era una volta…».
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