Nei giorni scorsi, si sono succeduti due appelli pubblici – uno del poeta Davide Rondoni, poi ripreso nel suo contenuto essenziale da Matteo Salvini, l’altro dell’Istituto Bruno Leoni – diretti ad allentare le limitazioni assai incisive che la libertà di culto sta subendo per effetto delle misure di contrasto alla pandemia. Se l’appello di Rondoni, centrato sulla possibilità per i cattolici di celebrare la messa pasquale, si rivolge essenzialmente alle limitazioni che toccano la “religione di maggioranza” (il virgolettato non è casuale), l’Istituto Leoni porta il discorso più in generare sulla necessità di trovare un bilanciamento efficace tra rispetto della salute pubblica (e dunque del bene supremo della vita) e libertà di culto. “Proprio oggi, quando la libertà di muoversi, di riunirsi, di lavorare delle persone è già così pesantemente limitata, è importante trovare il modo di garantire loro come esprimere la propria identità, le loro convinzioni più profonde”: così scrive l’Istituto Leoni, nel solco della tradizione liberale classica.
Un approccio liberale al problema non può ignorare l’opera di Ronald Dworkin. Uno dei contributi più preziosi che Dworkin ha dato al costituzionalismo contemporaneo è stato – quantomeno a mio avviso – quello di alimentare il dibattito sulla connessione tra diritto e morale, sviluppando, proprio a partire da tale connessione, una riflessione sulle conseguenze giuridiche dell’esigenza che a tutti i membri della comunità siano riconosciuti “eguale considerazione e rispetto”.
Il fatto che la moralità politica si riverberi sulla teoria generale dei diritti fondamentali non implica solo la ben nota distinzione tra regole e principi (e la necessità di bilanciarne l’applicazione in caso di contrasto tra essi), ma anche la necessità che esista un diritto di vivere secondo i dettami della propria coscienza morale, che si arresta solo di fronte a esigenze ritenute preminenti e inderogabili e lo siano secondo la “best conception of constitutional moral principles” che si deve individuare in un determinato momento storico.
Lo Stato laico, almeno nella concezione del principio di laicità che deriva dalla giurisprudenza della Corte costituzionale italiana, impone non solo che credenti e non credenti godano del riconoscimento di eguale considerazione e rispetto, ma che le esigenze dei credenti – qualunque sia la religione di appartenenza – vengano prese in considerazione dall’ordinamento giuridico, in modo che venga assicurato a tutti (a prescindere dalla cittadinanza e dalla fede professata) il libero e pubblico esercizio del culto. Ma c’è dell’altro. Lo Stato laico non può e non vuole conoscere le leggi confessionali e i principi teologici che regolano questo libero e pubblico esercizio: i pubblici poteri devono limitarsi a registrare le istanze che emergono dalla società civile e a dare a esse, entro i limiti segnati dalla Costituzione, un riconoscimento.
Queste sono le basi per prendere sul serio la libertà di culto, anche in un momento di drammatica emergenza sanitaria quale quello che stiamo vivendo.
L’eguale considerazione e rispetto nei confronti dei credenti, che oggi si trovano a vivere la propria fede secondo regole che limitano fortemente (se non addirittura azzerano) il pubblico esercizio del culto, impone che gli appelli che provengono dalla coscienza dei credenti non possano essere liquidati con una semplice alzata di spalle, o peggio con un’accusa – quella di fondamentalismo – che finisce inevitabilmente per delineare una linea di demarcazione di carattere etico, difficilmente compatibile con una laicità presa sul serio. Come ben nota Michael Walzer, la grammatica teologica, certamente non più mainstream, anzi, ormai tendente a diventare una vera e propria controcultura, è l’espressione – piaccia o no – dell’identità e della coscienza di una parte dei consociati. Non può essere liquidata come un qualcosa di inutile, come un gingillo non necessario alle esigenze di un’esistenza che non vive dei soli prodotti che si possono acquistare nei supermarket.
E poco vale argomentare che anche la fruizione dell’arte e della cultura o la tutela del benessere fisico attraverso lo sport subiscono oggi una compressione vicina all’azzeramento. Questo non perché la libertà religiosa valga di più, ma perché nell’ottica della “best conception of constitutional moral principles” non si può utilizzare l’argomento del “tutte le libertà sono compresse” per legittimare la compressione di una singola libertà. Pur nella necessità di trovare norme comuni, è chiaro che le modalità di esercizio dei singoli diritti fondamentali richiedono una ponderazione degli interessi in gioco che deve plasmarsi sulle richieste di riconoscimento che prendono vita nel caso concreto.
Ovviamente il riconoscimento delle richieste dei consociati religiosi in merito al pubblico esercizio del culto trova nella tutela di beni/valori della vita e della salute pubblica un limite invalicabile: ma questo limite è necessario e allo stesso tempo giuridicamente ragionevole solo nella misura in cui la manifestazione esterna del senso religioso possa effettivamente ledere o mettere in pericolo detti beni/valori. Per cui, laddove fosse possibile individuare modalità di compimento di atti di culto che – con le opportune misure di cautela sanitaria generale – non mettessero a rischio la vita e la salute pubblica più di un acquisto dal tabaccaio, dal giornalaio o nel più vicino supermarket, ben difficilmente lo Stato laico potrebbe giustificarne in modo ragionevole il divieto di celebrazione.
È proprio in questo frangente che dovrebbe attivarsi il passaggio dalla teoria generale del diritto alla rigidità della disposizione normativa: il sistema bilaterale di rapporti tra Stato e confessioni – sistema che su questa stessa rivista abbiamo criticato, ma che deve ritenersi ancora vigente e dunque capace di porsi come strumento di regolamentazione anche nell’emergenza – vorrebbe che l’individuazione di tale modalità fosse realizzata attraverso un dialogo formale tra i poteri pubblici e la Santa Sede (ovvero gli enti esponenziali delle altre confessioni con intesa). È l’articolo 14 dell’Accordo di Villa Madama, nel caso dei rapporti tra Stato e Chiesa cattolica, a richiedere a una commissione paritetica tale opera di discernimento: opera che appare tanto più necessaria allorché si inizi a realizzare quella “fase 2” di gestione dell’emergenza che da più parti (anche nel mondo accademico) viene prospettata, ma anche allorché si pensi che le misure contenitive non avranno vita breve.
Tutto ciò con l’auspicio che, proprio attraverso la concertazione, si eviti il passaggio dal “diritto ecclesiastico dell’emergenza” al ‘‘diritto ecclesiastico del nemico’’, in cui si fa strada l’idea che i soggetti confessionali – per i principi teologici professati o per i riti celebrati – possano essere considerati tra i gruppi sociali capaci di alimentare il pericolo sanitario e dunque debbano essere costretti a una completa diluizione della loro presenza pubblica. “Diritto ecclesiastico del nemico” di cui – ça va sans dire – finirebbero per essere vittime soprattutto le minoranze.
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