Non si riescono a comprendere sino in fondo tutti gli elementi di sorpresa nel voto alla Lega: era nelle cose che avanzasse e riempisse un vuoto. Il responso elettorale del 4 marzo 2018 ha sancito in modo apparentemente inequivocabile il successo della strategia di Matteo Salvini. Il 17,4% su scala nazionale (5,6 milioni di voti), che fa della Lega la terza forza politica del Paese a un solo punto di distanza dal Partito democratico, è il risultato più alto nella sua storia ormai trentennale: nettamente superiore al 10,1% in «solitaria» del 1996 e più che doppio rispetto all’8,3% del 2008, elezione che aveva segnato la rinascita elettorale del Carroccio. Ma il successo più importante conseguito da Salvini è il sorpasso su Forza Italia, in un quadro di rapporti interni alla coalizione rovesciati al punto da rischiare di destabilizzare un centrodestra vincente che non ha i numeri per governare da solo.
Per la prima volta dal 1994 il peso relativo della Lega sul totale dei partiti del centrodestra è quasi maggioritario, raggiungendo il 49%. Tra il 1994 e il 2001 il partito di Umberto Bossi «contava» solo per circa il 20%, con un significativo calo dal 2001 al 2013 durante la fase in cui la Lega attraversava un periodo di crisi di leadership e di organizzazione. Come si vede nella tabella, nel 2018 il partito guidato da Salvini ha alterato radicalmente questa tendenza, ponendosi quale pilastro elettorale del centrodestra. Siamo qui in presenza di un vero e proprio ribaltamento del forza-leghismo lucidamente delineato qualche lustro fa da Edmondo Berselli. Siamo al leghismo forzista, ma la sostanza non cambia: è in quel magmatico mondo ostile al civismo repubblicano che Salvini ha fatto il pieno.
Francamente non c’è da sorprendersi, almeno tra chi studia il partito da tempo. Gli elementi sociali, politici ed elettorali per l’avanzata leghista c’erano tutti. L’exploit della Lega parte dal 2010 e, paradossalmente, continua anche nel 2012, l’anno degli scandali e della successione a Umberto Bossi. In questa fase particolarmente delicata Salvini, dapprima schierato con Roberto Maroni, inizia a costruirsi uno spazio politico sempre più autonomo sino alla scalata a segretario federale, nel 2013, dopo avere sconfitto lo stesso senatùr alle «primarie» chiuse di Torino. Sul piano interno, la linea dirigista imposta dal nuovo leader lo porta a marginalizzare politicamente la vecchia guardia e chiunque non sia rigorosamente schierato con lui, a partire dal rivale Flavio Tosi per arrivare allo stesso Maroni, che pure aveva legittimato la sua ascesa, e infine a Luca Zaia, relegato ai margini nella prigione dorata della regione Veneto.
Dopo il 2012 la Lega si sposta definitivamente a destra, completando un processo avviato almeno un decennio prima.
[L'articolo completo, pubblicato sul "Mulino" n. 2/18, pp. 266-271, è acquistabile qui]
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