Nell'opera teatrale di Romeo Castellucci circolano molti dei fondamentali della fede cristiana; anzi, il regista mette in scena proprio quelli che le dovrebbero essere più cari - e lo fa con una qualità artistica di indubbio interesse teologico. Tale permanenza e riconoscibilità del cristianesimo nello spazio comune del contemporaneo sembrerebbe disturbare sia i difensori della vera religione, sia i paladini di un'indefessa laicità.
Non si tratta di un paradosso, ma di una condizione culturale di cui, dentro e fuori la fede, dovremmo prenderci cura; quantomeno lasciandoci schiettamente interrogare da essa. La posizione neo-intransigente del cattolicesimo la patisce, perché ne mette in discussione i presupposti attraverso i quali sta cercando di guadagnare la sua legittimazione, e il suo potere, all'interno della Chiesa (da qui la violenza, non solo linguistica, della reazione all'opera teatrale). La laicità si trova a disagio davanti a essa perché si è oramai assuefatta a pensarsi come mera contrapposizione alla religione, finendo per sentire questo posizionamento come l'unica ragione che la giustifica. Quando gli estremi si toccano opponendosi l'uno all'altro, e possono definirsi solo escludendo un medesimo fenomeno culturale, allora è giunto il momento di gettare via quel che rimane dell'armamentario obsoleto dei preconcetti di parte per riprendere in mano la sapienza critica del pensiero. Lo si dovrebbe fare insieme, perché rimanendo separati né la religione né la laicità hanno più la forza di controbilanciare le derive che si stagliano all'orizzonte di entrambe.
Sarebbe sbagliato pensare che quanto sta accadendo nella Chiesa cattolica sia semplicemente una questione interna. La costruzione in vitro di una fede incontaminata, opposta a una secolarità sentita come irrimediabilmente corrosiva dei suoi principi divini, è funzionale alla costituzione di un'identità cattolica immune a quei processi di diversificazione culturale e di complessità civile, che la globalizzazione sta iniettando in massa nel tessuto delle nostre società. In questo, i nuovi integralismi religiosi si apparentano tra di loro al di là di ogni demarcazione confessionale dei contenuti propri a ciascuna fede. Il neo-intransigentismo cattolico è solo uno dei molti fenomeni che attestano l'emergere diffuso di forme immunitarie di identità, che si stanno pericolosamente insinuando all'interno di una convivenza civile sempre più frammentata. Le identità immunitarie rappresentano una sorta di rigetto, da parte del corpus sociale, di quelle inedite intrusioni culturali che contrassegnano la contemporaneità, facendo decadere i confini delle demarcazioni tradizionali. Per lungo tempo, nel corso del moderno, è stata proprio la laicità a istruire la fede sulle modificazioni in atto nella convivenza umana; oggi i segnali di un indebolimento di questa sua funzione maieutica sono sempre più evidenti. Posta a puro presidio di se stessa, anche la laicità rischia di ridursi a una petitio principii che la esonera dall'interpretare quello che accade realmente. Il cristianesimo europeo dovrebbe guardare con preoccupazione a questo degrado della laicità a una delle tante sub-culture che lottano fra di loro per imporre la propria egemonia, accomunate però dallo sfruttamento dell'incertezza estrema a cui ci espone la congiuntura attuale. Lo dovrebbe fare perché l'idea di laicità è quel vuoto ospitale, nel quale possono liberamente circolare una pluralità di attestazioni del senso (religiose e non), che si è generato, certo non senza frizioni e dialettiche, come storia comune dell'Europa e del cristianesimo occidentale.
Nella sua matrice evangelica più profonda, la fede cristiana ha in sé gli anticorpi per resistere alla tentazione immunitaria; ma, al tempo stesso, è proprio questa sua specificità che la espone al rischio di auto-negarsi recedendo verso lo statuto, molto più confortevole, di «religione pura» - alleggerendosi così del peso della cultura quale forma costitutiva della propria presenza sulla scena della storia umana. Abbandonarla a se stessa in questa impresa potrebbe andare contro gli interessi stessi della laicità; perché la contaminazione dell'ispessimento corporeo del Dio cristiano rappresenta la forma più radicale di una critica della religione che vuole prendere congedo definitivo dal tessuto culturale all'interno del quale, volente o nolente, essa continua comunque ad attuarsi. Oggi, né la laicità né il cristianesimo possono più permettersi di lasciare all'occasione, puntuale e fortuita, il lavorio congiunto sui quei fondamentali dell'umano che sono in grado di salvaguardare una socialità che sia realmente condivisa da tutti, senza per questo dover rinunciare alla pluralità dei modi in cui ciascuno la abita dandole forma.
La polemica generatasi intorno all'opera di Castellucci ha aperto anche spazi virtuosi di interazione, magari senza che nessuno lo volesse prima di essa. La disponibilità e la sensibilità del regista hanno permesso un'interlocuzione culturale alta; ma, soprattutto, hanno messo in risalto una condizione comune di cui ciascuno deve farsi carico, a partire dalle proprie competenze e persuasioni. Se da un lato si deve chiedere il riconoscimento compiuto dell'implicito cristiano che circola liberamente nelle trame della nostra cultura contemporanea, dall'altro bisogna essere all'altezza di mostrare che non lo si vuole colonizzare confessionalmente ledendo l'autonomia dello spazio civile che lo ospita - nella persuasione che proprio questa, e non altra, è la destinazione evangelica dello stesso desiderio cristiano di Dio.
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