Se in America Trump sia impopolare non è senza rilevanza, non tanto rispetto alla sua rielezione, lontanissima nel tempo, ma semmai rispetto ai suoi rapporti con il Partito repubblicano, emersi come molto difficili in occasione del recente fiasco nella sostituzione dell’Obamacare, e rispetto alle elezioni congressuali del 2018, ancora lontane ma non troppo.
A oggi la risposta non sembra essere altra che: sì, ma… Sì, perché il dato di popolarità rispetto all’opinione pubblica nel suo complesso è molto basso, nettamente più basso dei suoi predecessori. Al 19 luglio la fonte FiveThirtyEight, che fa la media delle principali rilevazioni, riporta una tasso di approvazione dell’operato del presidente del 38,6, mentre quello di disapprovazione è al 55,9. È un livello nettamente inferiore a quello dei suoi predecessori Bush, Clinton e Obama, che nello stesso periodo delle loro amministrazioni non erano scesi sotto un livello di approvazione del 50% (salvo Clinton per breve tempo) e avevano toccato molto raramente la soglia al ribasso del 40% nel corso complessivo del loro incarico presidenziale. Si può dire che Trump non abbia usufruito di quella che si chiama la “honeymoon” del nuovo presidente con l’opinione pubblica, che convenzionalmente per circa 100 giorni gli concede una cambiale di credibilità che facilita i primi passi legislativi del suo governo. Entrato in carica il 20 gennaio 2017, in quel periodo la popolarità di Trump è oscillata intorno al 40-45% (comunque bassa), per poi scendere da marzo, con qualche oscillazione, sotto la soglia del 40%. Se la sua popolarità dovesse scendere ancora tanto da influenzare negativamente le possibilità di successo dei candidati elettorali repubblicani, allora un’altra ragione si aggiungerebbe alle già molte difficoltà del presidente con il Grand Old Party.
Ma qui cominciano le obiezioni, la prima delle quali è che il dato di opinione in generale ha un valore solo parziale in un Paese che vota alle presidenziali in una percentuale che oscilla tra il 50 e il 60%. Si deve spostare lo sguardo sui potenziali votanti per avere dati più significativi, soprattutto in un elettorato che dagli anni Ottanta ha subito un processo di polarizzazione, radicalizzazione e ideologizzazione che riguarda soprattutto la base repubblicana e, ancor di più, trumpiana. Il risultato è che circa il 90% di coloro che hanno votato Trump alle ultime elezioni dicono che lo rifarebbe. Ne risulta che, seppur complessivamente impopolare e incapace di allargare la sua base di consenso, Trump gode di una robustissima lealtà tra i suoi elettori – in grande maggioranza repubblicani che valutano non sulla base delle singole politiche, ma di una scena pubblica vista come contrasto tra “noi” e “loro”. Fintanto che tiene questo paradossale binomio – forte impopolarità complessiva ma saldo radicamento nell’elettorato repubblicano – un congressista del partito dell’elefante, magari in vista di rielezione, starà ben attento ad attaccare il presidente per non perdere elettori repubblicani/trumpiani.
Questo paradosso è confermato da altri avvenimenti e rilevazioni: vi sono state cinque elezioni supplettive al Congresso dal marzo 2017, dovute all’abbandono della carica soprattutto da parte di congressisti che andavano a ricoprire impegni nell'amministrazione Trump. Quattro dei cinque posti vacanti erano stati tenuti da repubblicani, e i democratici speravano di conquistarne qualcuno, come segno del loro revival dopo la batosta presidenziale e dei primi profitti elettorali della battaglia anti-Trump. La strategia non ha funzionato e ciascuno dei posti è tornato nelle mani del partito che già lo controllava. Conta, certo, la distribuzione geografica della forza dei due partiti – la maggior parte dei posti erano in terra repubblicana. Ma Trump non ha danneggiato, forse anzi ha aiutato, i candidati repubblicani. In particolare nello scorso giugno, nello Stato sudista della Georgia, i democratici avevano contato su un candidato giovane e brillante, Jon Ossof, che tuttavia ha perso, seppur di misura, e ha riaperto le ferite del partito. Centrista clintoniano, Ossof ha confermato nella sinistra del partito la convinzione che, per vincere, ci vogliono candidati nettamente più progressisti, soprattutto in politica economica.
D’altra parte, sempre sulla scia del paradosso “impopolarità ma solido radicamento repubblicano”, altre rilevazioni sono interessanti in vista delle elezioni future: secondo vasti strati d’opinione in questo momento il Partito democratico non ha un profilo elettorale visibile che non sia quello di opporsi a Trump. Mentre la maggior parte degli americani preferirebbe che almeno una delle camere congressuali tornasse in mano ai democratici, il grado di mobilitazione e di fedeltà del loro elettorato sembra molto minore di quello dei repubblicani, che paiono avere una spinta molto più forte ad andare a votare.
La scena della popolarità di Trump e dei suoi effetti è ovviamente in movimento: bisogna vedere i contraccolpi dell’Obamacare, dove i repubblicani si sono lanciati in un tentativo spericolato e autolesionista. Fin dalle batoste politiche subite da Reagan negli anni Ottanta, quando aveva cercato di attaccare le popolarissime nome sulla Social Security, Medicaid e Medicare (la sanità pubblica per poveri e anziani), era diventata legge non scritta dei repubblicani che a toccare le norme di sicurezza sociale ci si scottava le dita. La “legge” sembra essersi ripetuta per l’Obamacare. Trump potrebbe avere la via più facile su taglio delle tasse, piano di investimenti pubblici per le infrastrutture, norme di deregulation, in cui il conflitto tra i repubblicani sembra minore. Gli effetti di queste misure sulla popolarità cominceranno ad avere riflessi sulle elezioni congressuali intermedie del 2018 che, essendo del tutto improbabile un “impeachment” checché ne sia del Russiagate, sono la vera cartina di tornasole della sua fortuna politica e del destino della sua amministrazione.
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