Questo articolo fa parte dello speciale La guerra in Ucraina
Nella vicenda Russia vs Ucraina, si sono scatenate le più scontate trappole cognitive e morali. Non vogliamo discutere della guerra in sé, perché pensiamo che ci manchino informazioni e cadremmo a nostra volta vittime di qualche bias. Le nostre tasse pagano servizi di intelligence e personale diplomatico che dovrebbero servire proprio per prevenire lo scoppio di conflitti di questo tipo. Purtroppo, con alterna efficacia: “il progresso della libertà dipende più dal mantenimento della pace e dalla diffusione del commercio e dell’istruzione, che dall’operato dei ministeri”, come diceva Richard Cobden. È evidente che la guerra non viene fuori dal niente: non è insensato chiederci perché siamo arrivati a questo punto e la stessa salienza di questa domanda dovrebbe indurci a qualche dubbio sulle reali intenzioni di Stati e apparati militari. Guardiani dell’ordine che spesso invece rompono la complessa tela filata da commerci, incontri, relazioni stabili fra le popolazioni: unica garanzia, anch’essa precaria, della pace internazionale.
Pensiamo che le reazioni e la qualità del dibattito sulla guerra in corso condividano alcuni tratti con quello, ancora caldo, sulla pandemia, e che insieme ci trasmettano segnali di crescente instabilità dell’ordine spontaneo conquistato dall’Occidente e dai sistemi liberali, che produce libertà e pace più di quanto non si sia mai visto nel mondo umano del passato.
Pandemia e guerra hanno diverse cose in comune, oltre a essere due dei cavalieri dell’Apocalisse, insieme alla carestia, che arriverà l’anno prossimo se la guerra non finirà presto, se le sanzioni continueranno a scassare lo scambio internazionale e se l’Europa insisterà nel mettere al bando l’uso del miglioramento genetico (Ogm). E ovviamente alla morte, che miete grazie ai tre compagni un raccolto generoso.
I nostri antenati si sono evoluti per centinaia di migliaia di anni in bande costituite da poche decine o un paio di centinaia di persone e hanno sviluppato difese immunitarie e comportamentali contro gli agenti patogeni funzionali a quel contesto, così come modalità di risoluzione dei conflitti sempre tarate su quelle dinamiche sociali. Di lì vengono le nostre intuizioni morali fondamentali. La demografia e la psicologia sociale di quelle comunità facevano sì che le guerre e le pandemie non esistessero.
Per intenderci, si trattava di contesti nei quali gli stranieri generavano sospetti e preoccupazioni e dove le negoziazioni e gli accordi erano più trasparenti (fregare l’avversario era più rischioso). Non si scontravano Paesi di decine di milioni di persone né eserciti di centinaia di migliaia di uomini per anni e anni. Malgrado una notevole facilità di controllo reciproco attraverso la comunicazione, i nostri antenati erano violenti e sappiamo che il principale fattore, non l’unico, che riduceva conflitti e violenza era lo scambio di beni tra comunità e individui tra loro stranieri. Noi abbiamo aree del cervello che si accendono e provocano il rilascio di dopamina (il neurotrasmettitore del piacere) quando cooperiamo tra noi economicamente. “Dove non passano le merci passeranno gli eserciti”: questa considerazione, che sintetizza il pensiero dell’economista Frédéric Bastiat, è ampiamente confermata da recenti studi di economia cognitiva: non è una legge di natura, ovviamente, ma un’euristica che funziona a livello di negoziazioni interpersonali spontanee. Nel venir meno delle relazioni di scambio, perdiamo anche la relativa simpatia che abbiamo imparato ad avere per gli “estranei” che non appartengono al nostro stesso gruppo.
Nel momento in cui i nostri antenati sono transitati nel mondo dell’economia agricola hanno sperimentato per millenni più malattie e ancora più violenza (le guerre) consentite dalle nuove dimensioni demografiche: la nuova densità di popolazione facilitava la trasmissione dei patogeni e la concentrazione del potere. Nel mondo pleistocenico abbiamo acquisito predisposizioni genetiche per comportamenti di protezione contro i rischi infettivi che si applicano anche all’indole bellica. Per esempio, il gruppismo, cioè giudicare sempre buoni e difendere sempre i nostri (famiglia, amici, comunità, nazione), e disapprovare sempre gli estranei: originariamente serviva anche a evitare contatti contagiosi. Se qualcuno insisteva ad avere contatti o era una minaccia per il nostro gruppo, allora si agiva con violenza.
La libertà dei moderni (e così il nostro benessere) è il frutto inatteso di un combinato disposto della diffusione di una mentalità scientifica che allena il pensiero critico, del libero mercato e della rule of law
La libertà dei moderni (e così il nostro benessere) è il frutto inatteso di un combinato disposto della diffusione di una mentalità scientifica che allena il pensiero critico, cioè scettico nei confronti del senso comune ma anche tollerante dei punti di vista altrui; del libero mercato, che consente l’organizzazione spontanea degli scambi nel modo meno inefficiente possibile; e della rule of law, il portato di una vasta serie di conflitti che consentono però di arrivare a norme che imbrigliano non solo i sudditi ma anche i governanti, riducendo al minimo abusi e discriminazioni. Le società liberali sono quelle nelle quali le persone non devono più avere paura che le loro opinioni o le relazioni economiche nelle quali sono impegnate valgano loro ritorsioni da parte del potere arbitrario.
Noi siamo però rimasti psicologicamente quelli che se le suonavano anche a morte se pensavano di aver subito un’offesa mentre erano a caccia, e cioè dei pericolosi e permalosi moralisti, magari oggi abili a confezionare filosoficamente i propri pregiudizi sotto le spoglie di qualche etica astratta. È proprio per questo, per questo nostro continuare a ragionare come vivessimo in gruppi di poche decine di esseri umani, pantografandone le logiche sulla scena politica nazionale, che le nostre società libere sono del tutto precarie. Per questo quando vengono meno libertà di pensiero e di opinione, libertà economica ed equilibrio tra i poteri torniamo a suonarcele. E per questo facciamo di tutto per farle venir meno, rispondendo così a un bisogno ancestrale di darcela di santa ragione, solo che oggi anziché archi e frecce abbiamo le testate atomiche.
Torniamo alla guerra. Consideriamo gli argomenti di chi vede una qualche responsabilità nei comportamenti di Ucraina e Nato, rispetto alle decisioni russe, ovvero di chi condanna Putin senza appello (in quanto moralmente cattivo o “comunista” o “malato”) ma anche di chi ha trovato in Zelens’kyj un nuovo De Gaulle. Ognuno si aggancia ai propri pregiudizi. Questi bias servono sempre a moralizzare lo scenario: a rendere impossibile una discussione piana (che dà scarso piacere), preferendo il tifo. Nella chiacchiera quotidiana, ma anche nelle redazioni dei giornali, quando parteggiamo per tizio o per caio usiamo un lessico sorprendentemente simile a quello a cui ricorriamo per parlare del derby. Del resto, è sempre il nostro cervello a funzionare nello stesso modo.
La differenza risiede solo nella necessità di spolverare con qualche formula di giustificazione apparentemente più rotonda pulsioni che sono tutte, si direbbe, “di pancia”. Si procede cercando selettivamente le prove a conferma di quello che “si sa” essere giusto (selezionando le fonti di informazione), si rafforza la propria posizione moralistica chiamando in causa caratteristiche non rilevanti dell’avversario (è pazzo, è vissuto in isolamento, faceva il comico…), si inseriscono gli argomenti in una cornice ideologica per farli accettare (i valori della democrazia, la pace che è più importante della libertà). Quello che spicca è il bisogno di schierarsi e accusarsi reciprocamente di immoralità, di considerarsi portatori del punto di vista o più realista, o più sentimentale o più giusto o più buono.
È drammatico e preoccupante che il sistema di sanzioni immaginato per piegare i russi sia presentato come se non avesse costi per gli occidentali (se uno scambio diventa impossibile, non perde solo chi non può vendere ma anche chi non può più comprare) e soprattutto che stia scassando quell’ordine internazionale basato sugli scambi pacifici, ricostruito con tanta fatica dopo il 1990. È drammatico che nel dibattito ogni misura sia o tutta bianca o tutta nera, perdendo persino la basilare cognizione del fatto che “nessun pasto è gratis”.
Anche oggi i chierici sembrano i nemici più determinati di quell’ordine sociale basato sulla cooperazione internazionale, sulla pace e sulla libertà individuale. O lo avversano a chiare lettere, parteggiando per i suoi nemici, o sostengono ogni misura che ne erode le fondamenta in Occidente
L’opinione pubblica, almeno in Italia, è impegnata solo a cercare colpe, come se servisse a qualcosa, per alleviare le sofferenze della popolazione ucraina. Qualcuno ne approfitta per l’ennesima resa dei conti tra intellettuali, concentrati sul proprio ombelico e impegnati ancora una volta a tradire la loro funzione a un secolo ormai dal libro di Benda. Esattamente come allora, anche oggi i chierici sembrano i nemici più determinati di quell’ordine sociale basato sulla cooperazione internazionale, sulla pace e sulla libertà individuale. O lo avversano a chiare lettere, parteggiando per i suoi nemici, o sostengono ogni misura che ne erode le fondamenta in Occidente.
Il rumore più assordante è dato dal proliferare di posizioni pseudo-liberali (elmetto calzato in testa e bandiera americana in salotto) a scapito di qualsiasi riflessione effettivamente liberale. La migliore qualità del pensiero liberale non dipende dal fatto che coltiva il culto della libertà, men che meno di una libertà “nazionale” che appartiene ad altre culture politiche, ma invece dal fatto che coltiva razionalmente le esperienze, sa cioè assumere un punto di vista realista. Più che una concezione ideologica della società, il liberalismo è un metodo. L’unico, tra quelli sin qui usati, che riesce a contenere gli effetti destabilizzanti dei flussi entropici che continuamente aggrediscono le comunità umane, soprattutto quelle più complesse, non da fuori ma purtroppo dal loro interno. Non a caso, i suoi presunti feticci non attengono simboli politici astratti e truffaldini (la nazione, la classe) ma invece prassi che consentono la vita ordinata e pacifica delle comunità umane (lo stato di diritto).
Una prospettiva liberale sa che a questo punto non è importante farla pagare a qualcuno, che la ricerca di un colpevole va lasciata agli storici. Ciò che conta, qui e ora, è ragionare per ridurre i danni su scale molto concrete e immediate, cioè per le persone coinvolte nella guerra o che subiranno le conseguenze su tempi più lunghi. Nell’immediato, questo vorrebbe dire soprattutto far sì che l’Occidente diventi il posto migliore che, coerentemente con i suoi valori, può accogliere coloro che fuggono dalla guerra.
Per farlo e perché questa nuova ondata di immigrazione, che sarà più massiccia e complessa di quella siriana, non si trasformi in una sequela di ingiustizie ai danni dei migranti e non produca nuovi populismi, la prima cosa da fare sarebbe togliere i lacci al sistema economico, che negli anni hanno impedito l’innovazione. Il nostro Paese a fine anni Ottanta era leader mondiale nel campo della genetica agraria e se dei politici incapaci non avessero messo l’economia agricola in mano a Coldiretti, oggi potremmo essere leader nello sviluppo di ogm in ambito agricolo, ovvero non avere timore dell’esplosione dei prezzi dei cereali. Ci sono margini per liberalizzare l’innovazione nel settore, ma l’intossicazione tecnofobica degli ultimi decenni avrà costi tragici comunque. Lo stesso discorso si può fare per l’energia: non si compra gas dai russi per connivenza ideologica ma perché conviene, e conviene perché l’Europa ha fatto di tutto perché non convenisse estrarlo nei suoi territori o perché diversi Paesi hanno demonizzato l’energia nucleare.
Ci rendiamo conto che queste appaiano questioni da bottegai, a chi si sente, comodamente seduto sulla poltrona del suo salotto, reclutato nel grande war game della Storia con la esse maiuscola. Il liberalismo è una dottrina che non ha bisogno di eroi. È la sua grande virtù, ma è anche ciò che lo rende dissonante con il nostro tribalismo atavico.
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