Può apparire incredibile, eppure, dopo colpi di scena e voltafaccia di ogni tipo, a quasi tre mesi dalle elezioni non è ancora chiaro se il “governo del cambiamento” del Movimento 5 Stelle e della Lega partirà o no. Tuttavia, le due forze politiche che sono uscite vincitrici dal voto del 4 marzo resteranno a lungo centrali nel panorama politico italiano e, in attesa di vedere se e come si potrà riproporre un'alleanza di governo tra di loro (prima e dopo le prossime elezioni anticipate), resta il cd. “contratto per il governo di cambiamento” a mettere in luce le linee di intervento sui principali ambiti della nostra vita pubblica, a cominciare da quelle esposte in un settore delicato come la giustizia.

La diagnosi da cui si parte è che l’Italia è colpita da una criminalità dilagante in tutti campi, che solo una maggiore repressione, con un generale aumento delle pene e soprattutto del carcere, è in grado di contrastare, senza escludere in certi casi la necessità di lasciare maggior spazio al cittadino che intenda “difendersi da solo”. Lo strumento penale va quindi orientato alla lotta contro tutti i tipi di criminalità: da quella mafiosa a quella che si ritiene indotta dall’immigrazione irregolare fino, ovviamente, a quella politica, corruzione in testa. È probabilmente questo atteggiamento a 360 gradi che ha permesso ai due partner della coalizione di trovare un accordo al grido di “tutti dentro”. Vanno perciò innalzate le pene, introdotti nuovi reati, allungata ulteriormente o abolita del tutto la prescrizione, revocate tutte le misure “premiali”, segno di inutile e pericolosa indulgenza. Addirittura, per combattere la corruzione viene chiesta l’introduzione dell’agente provocatore: una misura che, al di là della sua compatibilità con i principi costituzionali, avrebbe come probabile conseguenza solo un aumento della confusione e della paralisi delle nostre sgangherate strutture amministrative.

Anche se i governi dell’ultima legislatura non hanno certo portato avanti politiche “buoniste” –  aumenti di pena e nuovi reati non sono mancati – qui si intende introdurre una netta inversione di quella tendenza all’umanizzazione del processo penale che ha più o meno caratterizzato il nostro Paese nel corso dell’ultimo mezzo secolo. Se prima o poi un programma del genere dovesse venire attuato – ma sui suoi costi e la sua concreta fattibilità si tace – possiamo aspettarci un aumento del ricorso al carcere, con conseguente sovraffollamento – si stima un potenziale aumento di circa 10-12 mila detenuti sul breve termine - dato che difficilmente saranno pronte nuove carceri in tempi ravvicinati; e forse, sul medio-lungo periodo, un aumento – questo sì reale – della criminalità, data la ben nota propensione del carcere ad alimentare la recidiva.

Tuttavia converrebbe non far finta di ignorare come un programma del genere sia in linea con le attese di buona parte dei cittadini, se è vero che ormai da qualche anno circa l’80% ritiene che la criminalità sia in aumento, nonostante tutti i dati segnalino una diminuzione – o al massimo una stazionarietà – dei principali reati. Si tratta di una convinzione che appare molto radicata, probabilmente frutto di anni di bombardamento mediatico: i nostri telegiornali sono ai primi posti in Europa nel presentare il tema della criminalità nelle sue varie declinazioni. Una percezione, perciò, assai difficile da rovesciare, dato che non sembra essere scalfita dai dati di fatto.

D’altra parte, una politica così fortemente securitaria non può che rafforzare il ruolo della magistratura, che andrebbe però liberata da condizionamenti politici e correntizi, attraverso una riforma della legge elettorale del Consiglio superiore della magistratura – su cui mancano però i dettagli - e una separazione netta fra carriere giudiziarie e carriere politiche. Nei fatti, il programma che porta la firma congiunta dei due leader sembra rispecchiare in buona parte le richieste di almeno una parte della magistratura – per semplificare quella che si riconosce in Pier Camillo Davigo o Nino Di Matteo. Una magistratura che intende cavalcare l’allarme sociale suscitato dalla percezione di una criminalità in aumento, per acquisire popolarità (e mantenere la sua posizione di forza nei confronti della politica).

Del resto, l’abolizione o un nuovo allungamento della prescrizione – che negli ultimi tempi è già stata parecchio allungata – non porterebbe certo a una minore durata dei procedimenti. Oggi, solo circa l’1% delle prescrizioni avviene in cassazione, cioè quando manca poco a una sentenza definitiva. La gran parte avviene durante le indagini preliminari o in primo grado, quando la sentenza definitiva è ancora molto lontana. Dunque, abolire la prescrizione significherebbe soprattutto allungare processi che sono probabilmente destinati a non concludersi, ma tenendo così a lungo “sotto scacco” indagati e imputati. Così, anche la disponibilità dell’ex presidente incaricato Giuseppe Conte di voler essere “l’avvocato difensore” degli italiani assume un significato concreto: se prima o poi un simile “contratto” di governo dovesse essere attuato, di un avvocato avremo tutti molto bisogno. Lo si voglia o meno, si tratta di un programma che – per quanto discutibile e probabilmente pernicioso negli effetti – riflette gli orientamenti di buona parte del pubblico ma anche di alcuni importanti gruppi, in questo caso giudiziari, sottolineando ancora una volta l’ambiguità di una coalizione che si vorrebbe in opposizione alle odiate élite, ma che in realtà con alcune di queste (e con una piuttosto potente come la magistratura) intende collegarsi.

 

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