Provare a immaginare le tappe future del lungo cammino di trasformazione digitale del lavoro si rivela spesso un esercizio velleitario. Eppure le previsioni si sprecano, così come i tentativi di quantificare l’impatto della tecnologia sul lavoro in termini di distruzione e creazione di posti. Non manca una diffusa sensazione di angoscia per le conseguenze spiazzanti del cambio di paradigma (e questa percezione finisce spesso per favorire impulsi, anche elettorali, di marca sciovinista). Se automazione e digitale, sin dall’avvento del microprocessore, hanno rappresentato degli «osservati speciali», l’ascesa fulminea delle piattaforme – schemi organizzativi ibridi e formati contrattuali ultra-atipici – sembra aver colto di sorpresa giuristi e commentatori, i quali si sono rivolti forse troppo ingenuamente all’armamentario classico, in cerca di strumenti ermeneutici da adoperare anche in questa fase nuova.
Per evitare riflessi condizionati e fughe in avanti, è invece raccomandabile un atteggiamento pragmatico, sintonizzato sulle frequenze della modernità, che punti a un’applicazione più efficace delle regole esistenti, oltre che a un’opera di bonifica delle zone d’incertezza in cui proliferano regole ambigue.
È un bene che i lavori nella filiera delle piattaforme o, più in generale, quelli che sono stati definiti come mestieri «loggati» siano oggi al centro del dibattito accademico, sindacale e persino politico. Il sospetto – come ha scritto Sarah Kessler (in Gigged: The Gig Economy, the End of the Job and the Future of Work, St. Martin’s Press, 2018) – è che la gig economy, con il suo corredo di implicazioni dirette ed effetti collaterali, abbia il merito di anticipare alcune delle direttrici più interessanti, e allo stesso tempo critiche, lungo cui si svilupperà il mercato del lavoro nei prossimi anni.
[L'articolo completo, pubblicato sul "Mulino" n. 4/18, pp.588-602, è acquistabile qui]
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