L’applicazione da cellulare che uso come navigatore mi guida giù per una circonvallazione larga e trafficata come in tutte le grandi città. Ho appena lasciato il quartiere europeo, con gli immensi edifici a specchio che ospitano le istituzioni comunitarie e la miriade di uffici di organizzazioni e realtà ad esse legati. Ma ora, subito dietro una curva, inizio a percepire colori e odori tipici di un suq mediorientale. Al supermercato dove entro a comprare biscotti e jogurt tutti parlano arabo, le uniche parole in inglese sono quelle tra me e il cassiere, che dopo avermi congedata torna subito all’arabo per salutare la donna velata in fila dietro di me. Sono nel quartiere Du Midi, che prende il nome dalla stazione Sud. Amo il Medioriente, e dopo un attimo di disorientamento non mi dispiace affatto aver incontrato questo volto di Bruxelles – più che una città un’unione di comuni, la terza regione del Belgio, con la Vallonia e le Fiandre. Mi rendo conto della complessità e della vitalità di questa città, che non può essere raccontata solo come centro delle istituzioni europee. Anche se è per questo che mi ci trovo, dopo quasi duemila chilometri percorsi in bicicletta in sedici giorni, più un giorno di sosta a Lussemburgo per eccesso di cattivo tempo.
Sono partita da Roma il 19 giugno, con l’intenzione di raccontare con un viaggio a pedali il sessantesimo anniversario dei Trattati che istituendo la Cee e l’Euratom completarono la triade delle Comunità europee e avviarono il processo che ha portato fino all’Unione di oggi. Quando iniziai a pensare a questo viaggio, nel gennaio scorso, sia in Italia sia all’estero fioccavano denunce e accuse contro l’Unione europea, vista come causa di tutti i mali delle economie e delle nostre società. Più di un partito invocava l’abbandono dell’Unione da parte del proprio Paese, per seguire l’esempio della Gran Bretagna. Cosa è successo, mi chiedevo, in questi decenni da sfigurare a tal punto il volto di un progetto così ambizioso e, per diversi aspetti cruciali come la pace e la cooperazione tra gli Stati europei, così vincente? Se ci si pensa, emergono i passi avanti e le tappe raggiunte in fatto di integrazione, seppure minati da incertezze e contrattazioni senza fine sul trasferimento di pezzi di sovranità nazionale. Ma viene in mente soprattutto il colpo di grazia inflitto dalla crisi finanziaria globale, con le conseguenti misure restrittive, e impopolari, di austerity.
Sono stati anni in cui abbiamo visto i governanti dibattersi in una palude di ambiguità, consapevoli della necessità di portare avanti l’integrazione europea ma incapaci di trovare accordo sui tempi e i modi, schiacciati dalla pressione di opinioni pubbliche sempre più mutevoli e insoddisfatte, capaci di ribaltoni elettorali da capogiro.
Perchè adesso tutto sembra tanto più difficile rispetto agli anni Cinquanta e Sessanta? Non dovrebbe essere più facile continuare a muovere una macchina già avviata piuttosto che farla partire da zero? Dopotutto allora era da poco finita la seconda guerra mondiale, anni di tragedie e inimicizie tra popoli e Stati europei. Ci pensavo su, salendo in bici verso il cuore dell’Europa, e mi è parso di capire che il deficit più grave non riguardasse tanto l’economia o la debolezza dei Trattati, quanto invece l’assenza di idee. E la mancanza di passione e sostegno dei cittadini a un progetto che prima di tutto dovrebbe ancora portare vantaggi soprattutto alle persone.
Sull’onda di questi pensieri, il 30 giugno affrontavo la mia dodicesima tappa, partita da Kleinblittersdorf, città tedesca sulla Saar, unita alla francese Grosbliederstroff da un ponte dedicato alla loro amicizia, il Pont de l’Amitié, appunto. Avevo percorso quaranta chilometri sulla ciclabile tra l’autostrada e il fiume, costeggiando gli stabilimenti industriali che tanta parte avevano giocato nella rivalità franco-tedesca e poi nella loro nuova collaborazione. Avevo poi scollinato, passando per un altopiano meraviglioso, dorato di cereali, torreggiante di immense pale eoliche, punteggiato dai Menhirs de l’Europe. Per scendere poi nella valle della Mosella, al luogo dei Tre Confini, crocevia tra Germania, Francia e Lussemburgo. Meta intermedia della tappa, la cittadina di Schengen, dove a partire dal 1985 furono firmati i vari accordi sull’abolizione delle frontiere interne che in seguito sono entrati a fare parte dell’ordinamento comunitario. La pista ciclabile che conduceva al ponte era dedicata a Robert Schuman, «père de l’Europe». Era il 9 maggio 1950 quando Schuman pronunciava la dichiarazione sulle intenzioni francesi di creare un’Alta autorità per gestire in comune con la Germania la produzione del carbone e dell’acciaio. È per l’importanza simbolica e pratica di quella dichiarazione che ogni anno il 9 maggio si festeggia come Giornata dell’Europa. Quel giorno, celebriamo la dinamica vitale di alcune persone ispirate da una visione che ha generato un movimento inedito, un ribaltamento di prospettive dopo decenni di circoli viziosi che continuavano a portare la guerra in Europa.
Ho voluto partirmene in bici per dare una sorta di contributo personale a questo movimento. In un mondo dominato dall’illusione di poter conoscere, dire e fare quasi tutto dallo schermo di uno smartphone, spesso ci ritroviamo paralizzati da un senso di fatalismo verso ciò che ci succede, sentendoci vittime impotenti di governanti cinici e inaffidabili. Il mutamento così repentino e pericoloso del clima, il terrorismo, la crisi economica, i flussi migratori.
Con la mia bici, ho tentato di percorrere un pezzo di strada per uscire da questa trappola, per ricordare a me e agli altri che le idee camminano sulle gambe delle persone, che ciò che succede nel mondo nel bene e nel male è opera di qualcuno che porta avanti una visione individuale o collettiva. Naturalmente il mezzo non è stato scelto a caso. la bicicletta è mobilità sostenibile, e la mobilità è specchio e cartina tornasole delle dinamiche di una società. La mobilità è sostenibile quando può essere messa a disposizione di tutti senza essere diminuita e senza provocare ingenti danni o consumo di risorse. È la natura dei beni indivisibili il fatto di poter essere goduti solo in maniera condivisa, oppure non esistere. Un’Europa che si rinchiude in se stessa, che pensa di acquisire la pace e la sicurezza blindando i confini, barattando i suoi valori di giustizia e democrazia con barriere di filo spinato elevate da regimi autoritari somiglia a una persona che pensa di ottenere più libertà spostandosi su un Suv in città. Lo sapeva bene Schuman, che diceva che la pace non avrebbe potuto essere portata dai singoli Stati nazionali, e che poteva essere costruita solo tramite la collaborazione. E non è certo un caso che lo stesso Schuman fosse convito che il passo successivo avrebbe dovuto essere occuparsi dello sviluppo dell’Africa.
Nel 2010 sono stata in Siria. Ho dovuto rifare il passaporto, perchè avevo timbri israeliani, e sono dovuta andare a Roma all’ambasciata siriana per chiedere il visto. Questa è la condizione della libertà di movimento per milioni di persone, che anzi il più delle volte non hanno alcuna via legale per poter partire e cercare un futuro migliore, se non addirittura la sopravvivenza stessa. Nelle scorse settimane ho attraversato una dozzina di volte i confini tra gli Stati europei, a volte senza nemmeno rendermene conto. Ho pagato con le monete e le banconote che avevo già nel portafoglio, ho usato il mio cellulare italiano per telefonare e chattare. Ho incontrato a Lussemburgo e a Bruxelles giovani italiani che si impegnano nel lavoro nelle istituzioni europee e ne sono soddisfatti, ho conosciuto una ragazzina figlia di romani che parla dalla nascita le tre lingue del Lussemburgo, oltre all’inglese che studia a scuola (e naturalmente al romano). Ho ascoltato il racconto di reti europee di progetti sociali per la lotta alla povertà e l’inclusione lavorativa di soggetti svantaggiati. Ho cercato e trovato, a volte anche per caso, i segni degli interventi e delle misure portate avanti a favore dei territori e delle comunità grazie ai fondi europei. Ho parlato con un giudice della Corte di Giustizia europea che mi ha ricordato che grazie a quell’istituzione i diritti europei sono direttamente applicabili a tutti i cittadini. Ho visto ad Aquisgrana il nostro millenario patrimonio culturale e storico, e nelle Ardenne e la linea Sigfrido le cicatrici finalmente chiuse della nostra inimicizia.
Ho scelto di andare in bicicletta da Roma a Bruxelles per celebrare l’anniversario degli ideali che hanno camminato per sessant’anni; grazie ad essi noi tutti abbiamo goduto del bene della pace, della cooperazione, dell’integrazione. Oggi di nuovo questi ideali devono riprendere il loro cammino e realizzarsi nell’unico modo possibile alla loro natura, che è la condivisione. Sono partita in bicicletta perchè soli nel vasto mondo capita di essere colti dalla paura dell’ignoto, del diverso, del futuro; ed è allora che bisogna tenersi stretta la destinazione e la motivazione senza lasciarsi guidare dalle emozioni negative. Sono partita sedici volte, ogni mattina rifacendo le borse che disfavo la sera, ogni giorno seguendo una traccia, per ricordarmi che gli obiettivi si raggiungono se ogni giorno ci si muove metro per metro nella direzione giusta. Per augurare alla mia Europa di muoversi nella direzione giusta, riscoprendo la forza delle idee e la fede di poterle realizzare insieme.
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