L'innegabile riduzione di iscritti nei corsi di laurea in Giurisprudenza è attribuibile all'eccessiva lunghezza del percorso di studi (laurea magistrale di cinque anni), nonché alla difficoltà, prodotta da numerosi fattori, di «tenere conto delle nuove esigenze professionali emerse sul campo»: così secondo Eugenio Bruno e Valeria Uva in un articolo pubblicato qualche tempo fa su «Il Sole-24 Ore», intitolato Giurisprudenza in crisi: in dieci anni matricole dimezzate. I due giornalisti riportano inoltre la proposta dell’avvocato Antonio De Angelis, presidente dei giovani avvocati di Aiga, di «rendere facoltativi alcuni esami "storici", come Istituzioni di diritto romano o Filosofia del diritto per lasciar posto a temi come l’inglese legale [rectius, giuridico!] o, più urgente di tutti, il diritto delle nuove tecnologie».
L’analisi proposta dal quotidiano di Confindustria è interessante non soltanto in sé, ma anche come esempio paradigmatico della funzione che viene di solito attribuita alla formazione superiore e, direi, in generale alla conoscenza oggi in Italia. Prima di affrontare questo tema, tuttavia, è opportuno dedicare qualche riga a un'osservazione preliminare. Gli autori dell’articolo ricavano la crisi, o almeno l’affanno, degli studi giuridici dalla riduzione degli iscritti nei corsi di Giurisprudenza. Trarre una tale conclusione da questo solo dato è quantomeno affrettato. Una riduzione degli iscritti può essere infatti l’esito, virtuoso, di un riequilibrio fra domanda e offerta. Se alcuni spazi lavorativi per i laureati in giurisprudenza sono saturi o bloccati (si pensi rispettivamente all’enorme numero di avvocati su piazza o alla drastica riduzione negli ultimi anni dei concorsi pubblici), allora la diminuzione di iscritti in Giurisprudenza va considerata un esito fisiologico e opportuno. Sarebbe forse meglio avere una moltitudine di laureati che, dopo un percorso di studi lungo e impervio, non trovino spazio nel mercato del lavoro?
Se si vuole ricavare un motivo di preoccupazione dalla riduzione degli iscritti in Giurisprudenza bisogna guardare al dato in modo più sottile. Un'analisi più accurata, infatti, mette in luce che la decrescita è molto più marcata al Sud e che alcuni tra i principali e più rinomati atenei del Nord hanno mantenuto negli anni un numero costante – se non addirittura leggermente crescente – di iscritti. Ciò è indice del fatto che, a differenza del recente passato, anche i giovani meridionali che studiano diritto tendono a spostarsi al Nord a causa del progressivo e apparentemente ineluttabile impoverimento del Sud. La migrazione della nuova classe dirigente non fa che acuire la desertificazione sociale del Sud Italia e rafforzare l’immagine di un'Italia divisa in due. Questo è uno dei problemi preminenti che una classe politica degna di questo nome dovrebbe affrontare con misure a medio e lungo termine le quali, se efficaci, avvantaggerebbero l’intero Paese e non soltanto la sua parte più depressa. Affrontare questo tema – che, peraltro, è già stato ampiamente posto sotto la lente di ingrandimento dalla pubblicistica – va tuttavia ben oltre l’ambito delle considerazioni che intendo presentare qui.
Il punto che mi interessa approfondire è l’immagine idealtipica del giurista contemporaneo che si può ricavare dalla lettura dell’articolo di Bruno e Uva. Metto subito le mani avanti. L’intento non è affatto quello di assumermi, da filosofo del diritto, la difesa d’ufficio della filosofia del diritto; in effetti, ciò che sino ad ora mi ha trattenuto dal replicare alle considerazioni contenute nell’articolo citato è stata proprio la preoccupazione di non apparire un cicero pro domo sua. Inoltre, vorrei evitare anche l’effetto déjà vu che avverto ad esempio quando, con cadenza regolare, mi capita di leggere sui quotidiani le perorazioni – che comunque condivido – sull’importanza di studiare il greco e il latino e in generale sull’opportunità di non abbandonare gli studi classici.
Detto tutto questo, che potrebbe comunque apparire come una excusatio non petita, ritengo che l’idea di riformare gli studi giuridici ponendosi l’obiettivo di produrre (il verbo non è usato a caso) giuristi con una profonda competenza tecnica settoriale – possibilmente negli ambiti à la page individuati dal presidente di Aiga e subito spendibile sul piano professionale – è non solo un'idea sbagliata sul piano culturale, perché il giurista è qualcosa di più di un tecnico, ma anche profondamente ingenua rispetto al fine di rendere i giuristi del nuovo millennio più pronti ad affrontare un mercato del lavoro 2.0 (o 3.0, 4.0 e così via).
Il diritto, come tutte le pratiche sociali, è in continuo cambiamento (e in alcuni periodi, come ad esempio in quello attuale, cambia molto velocemente) e un giurista sprovvisto di coordinate generali che consentano di leggere e mettere a sistema questi cambiamenti sarà sempre in affanno e a rischio obsolescenza a breve termine. Norberto Bobbio individua due modelli di giurista – il giurista «custode» e il giurista «creatore» – e indica le tre variabili che determinano il prevalere di un modello sull’altro: la prima variabile è collegata al tipo di sistema giuridico entro cui il giurista opera («variabile istituzionale»). Un sistema giuridico può essere chiuso o aperto. Sarà chiuso se è composto da un corpo sistematico di regole che tendono alla completezza e sarà invece aperto se le regole sono «fluide», vale a dire indeterminate e in continua trasformazione.
La seconda variabile dipende dalla situazione sociale generale («variabile sociale»). Una società può essere stabile o in trasformazione a seconda della minore o maggiore influenza di fattori di cambiamento sui modelli culturali esistenti; l’ultima variabile è collegata alla concezione del diritto prevalente fra i giuristi e dal modo in cui viene calibrato il rapporto fra il diritto e la società («variabile culturale»). Il diritto può essere visto come un sistema autonomo e largamente auto-referenziale ovvero come un sotto-sistema di un sistema globale o come una sovrastruttura della struttura sociale ed economica in particolare. A me pare inconfutabile che nel mondo globale di oggi il diritto sia un sistema aperto se non «spalancato», che la società sia in continua trasformazione e caratterizzata dal pluralismo e dal multiculturalismo, che il diritto sia sempre più inteso come un riflesso e una variabile dipendente della società e, dunque, che il modello di giurista prevalente, qui ed ora, sia quello che Bobbio chiama creativo.
Se le cose stanno così, l’immagine di un giurista che si limiti ad applicare diligentemente il diritto ai casi concreti (immagine peraltro sempre distorsiva della realtà) è proprio fuori luogo. Per navigare in acque così perigliose il giurista deve avere spalle molto larghe e non può certo accontentarsi di conoscere a menadito e nei dettagli tutta la normativa relativa, ad esempio, alle operazioni di M & A. Si può senz’altro sottoscrivere l’osservazione di Letizia Gianformaggio che «un giurista privo di consapevolezza critica (che null’altro, in definitiva, produce la filosofia) non è “solo un giurista”: è semplicemente un cattivo giurista, mentre un filosofo del diritto che non studi il diritto non è un “mero filosofo del diritto”: semplicemente non è un filosofo del diritto». Nelle parole di Gianformaggio si sente l’eco della distinzione bobbiana tra filosofia del diritto dei filosofi e filosofia del diritto dei giuristi e la preferenza per quest’ultima.
Si può aggiungere che nel caso del diritto la dialettica tra teoria e pratica è più complicata rispetto a quanto non sia in relazione ad altri ambiti del sapere umano. Nella prima metà del secolo scorso Jerome Frank osservava che «una facoltà di medicina gestita da insegnanti che abbiano visto di rado un paziente o di rado abbiano diagnosticato malattie in esseri umani in carne e ossa o eseguito vere operazioni chirurgiche, difficilmente sarebbe in grado di laureare medici dotati delle competenze minime necessarie per esercitare la professione. E tuttavia le nostre law school sono altrettanto carenti nei confronti dei loro studenti». Queste critica è in parte fondata e vale anche oggi. Tuttavia è solo in parte fondata, nel senso che l’assimilazione tra medici e giuristi è fuorviante. Il modo in cui medici e giuristi «operano sull’uomo», per usare l’espressione di Francesco Carnelutti, è qualitativamente diverso. L’intervento dei medici è diretto, sulla carne e sulle ossa delle persone, per usare l’espressione di Frank. È indubbio che nel diritto il ruolo del linguaggio è preponderante.
Che cosa fanno, dopotutto, i giuristi? Interpretano disposizioni normative. Non a caso Ronald Dworkin ha definito il diritto una pratica sociale argomentativa. Ciò rende la distinzione tra teoria e prassi in ambito giuridico molto più labile ed aleatoria di quanto non appaia ad esempio in ambito medico. Anche la distinzione tra interpretazione in astratto (che è quella che farebbero i professori di diritto nei loro libri) e interpretazione in concreto (che coincide con l’applicazione del diritto da parte di avvocati e giudici ai casi concreti), data spesso per scontata, non va enfatizzata. L’interpretazione in astratto, infatti, non può non confrontarsi con ipotetiche situazioni concrete con cui una certa disposizione, o un insieme di disposizione, si troverà ad interagire. Nel diritto, in altri termini, si può dire che l’interpretazione è sempre in concreto e ciò contribuisce ad assottigliare la distanza tra teoria e prassi. Ciò contribuisce quantomeno a problematizzare la già di per sé detestabile distinzione tra sapere e saper fare. Sotto questo profilo sarebbe arduo sostenere l’irrilevanza pratica ad esempio di una riflessione teorica sul linguaggio giuridico.
Per finire qualche precisazione su ciò che non ho inteso sostenere. Non credo affatto che la LMG/01 sia il migliore dei mondi possibili. È vero, come si sostiene nell’articolo citato in apertura, che è un percorso alquanto ingessato ed eccessivamente impermeabile al mondo delle professioni. A mio avviso, un’attenzione maggiore sin dai primi anni con chi il diritto lo pratica nelle diverse sedi non farebbe che migliorare la formazione giuridica. È altresì vero che si dovrebbe garantire uno spazio maggiore a quei settori – come anche quelli individuati dal presidente dell’Aiga – che aiutano a comprendere le trasformazioni del diritto. Ciò presuppone la disponibilità, da parte di tutti, a rinunciare alle proprie rendite di posizione, e a non considerare come un atto di lesa maestà la erosione dei crediti destinati al proprio insegnamento. E si potrebbe continuare. Detto questo, pensare che la panacea di tutti i mali consista nell’eliminare l’insegnamento di filosofia del diritto (o del diritto romano) sarebbe come – stiracchiando la metafora di Otto Neurath – affondare la barca che si dovrebbe invece cercare di riparare.
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